Fortissimo, quasi violento, il distacco di Bolan dal freakbeat schizofrenico dei John’s Children, dove si sentiva rinchiuso dentro la sua chitarra ritmica. Ne esce talmente stravolto che si rifugia nel morbido nylon della sei corde acustica e con lei inizia a frequentare piccoli club protetto dalle pelli nervose e visionarie di Stephen Ross Porter, che lui completamente risucchiato nelle vicende tolkeniane del Signore degli Anelli, prontamente rinomina Steve Peregrin Took; nome che gli rimarrà addosso come una seconda pelle.

Una sera all’apparenza come tante, il duo viene notato dal neofita-produttore Tony Visconti durante un’esibizione all’UFO Club e senza nemmeno pensarci due volte riesce ad ottenere per loro (e per se) un contratto con la Regal Zenophone (etichetta minore della EMI). Subito viene ripagato con un ottimo successo di vendite del primo singolo “Debora” che li porta direttamente nella top 40 delle charts inglesi. Sull’onda del successo, anche il primo album dei Tyrannosaurus Rex entra nella top 15, durante la “caldissima” estate del 1968. “My People…” si apre con uno dei due brani che Bolan si porta in eredità dall’esperienza John’s Children, anche se qui “Hot Rod Mama” suona come un sudicio blues del delta, visto con delle lenti lisergiche, mentre “Mustang Ford” è per certi versi il pezzo più debole ed estraneo del disco, freakbeat spogliato di tutta la sua elettricità, ancora lungi dal venire ri-vestito di strass e paillettes che sarà il glam che iscriverà per sempre Bolan nel firmamento della storia del Rock.

Il resto del disco è un continuo susseguirsi di morbide ballate folk, nel senso più alto e nobile dell’accezione, dove la sua voce improbabile dipinge storie sempre immerse in fantasticherie al limite fra l’infantile ed il fiabesco… favolose, che ricordano molto da vicino quelle di un’altro eterno bambino di nome Roger Keith “Syd” Barrett. La sua chitarra a volte sembra discreta, altre si limita ad accompagnare ed altre ancora rivendica urlando la propria importanza, tagliente e sicura del proprio percorso, come nelle frenetica “Welder Of Words”, dove anche il cantato si lascia andare a folli isterie. In tutto questo marasma, le percussioni, il Pixiephone ed i giocattoli (nel senso etimologico del termine) di Peregrin Took incedono con piglio mistico medio-orientale, tanto da infondere al tutto un alone di magia, che sublima nel mantra ipnotico della conclusiva “Frowling Atahuallpa (My Inca Love)”, dove per la prima volta in un brano di musica popolare anglo-sassone viene inserito il tipico canto Hare Krishna, che a sua volta sfuma lasciando sul bianco la voce di John Peel raccontarci una sorta di fiaba, professionale in quel tipico timbro britannico con si raccontavano (e tuttora si raccontano) le storielle per i bambini. Quasi commovente è “Child Star”, composizione di una delicata dolcezza che sembra quasi suonata degli Elfi stessi, abitata da una delicata frenesia è “Knight”, a tratti folle; mentre la freakettonaggine di “Chateau In Virginia Waters” precede il viaggio onirico nel deserto che si trova in un universo parallelo di “Dwarfish Trumpet Blues”.

Strange Orchestra" è un’assurda marcetta giocattolo, mentre etereo è il canto d’amore per “Afghan Woman”, leggero come leggera è la pioggerellina che cade in quelle mattine londinesi in cui cammini senza meta per ore ed ore, attraverso parchi che sembrano immensi e strade ancora calde della vita della sera prima… senti un’immensa e pesante umanità in quella desolazione, e la pioggia non ti bagna, anzi sembra creare sul tuo parka una sottile pellicola con cui ti proteggerti.

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