Le sue guance erano rosse fuoco, la sua testa scottava come se tizzoni ardenti stessero bruciandodietro i suoi occhi: Johann sapeva che suo figlioletto Werther non sarebbe sopravvissuto a quella notte, e che c'era bisogno di fare qualcosa, di portarlo al più presto al vicino villaggio per tentare di arginare in qualche modo quella terribile febbre che attanagliava il bimbo di cinque anni da ormai qualche giorno.

Lo avvolse alla bell'e meglio in una calda coperta che fino a quel momento era rimasta appesa vicino al crepitante focolare, lo imbacuccò bene bene e, di corsa, si precipitò fuori casa con il figlio in braccio e salì sul cavallo, che come un'onda in un mare in burrasca si impennò e di slancio partì nel buio di quella notte di febbraio. "Non è lontano il villaggio" diceva Johann al bambino (che, febbricitante com'era, era sospeso in uno stato di dormiveglia tremendo, nel quale non sapeva distinguere ciò che era reale da ciò che era frutto della malattia), "Resisti figlio mio"! A ogni scossa del cavallo il bambino sussultava, parlottava tra sé e sé, si divincolava e cercava di liberarsi da mani immaginarie. "Non vedi, padre, il Re degli Elfi?" diceva Werther... Johann tentava di rassicurare il figlio, dicendogli che non c'era nulla intorno a loro, solo il freddo vento che spirava sui loro volti, la nebbia e gli ossuti rami degli alberi ai bordi della strada, ma nel bambino cresceva la paura di qualcosa che il padre non vedeva (o non voleva vedere). Il giovane parlottava sempre più forte, sempre più intensamente: parlava di un Re che lo chiamava a sé, che cercava di conquistarsi la sua fiducia narrandogli di giochi, di belle favole, di castelli e di prelibatezze che lo attendevano se solo si fosse lasciato scivolare tra le sue grige braccia.

L'uomo, terribilmente impaurito e preso dall'orrore nell'udire i tremendi deliri del figlio, accelerò la corsa del suo cavallo, e in poco tempo raggiunse il villaggio. Sopraffatto dallo sforzo e dalla fatica riuscì lo stesso a sollevare il bambino e correre verso la bottega del dottore: aperta la porta entrò come un uragano dentro la stanza, e appoggiò delicatamente Werther sul lettino. Quando gli scoprì il volto la disperazione lo prese nel vedere che il bimbo non respirava più, che il suo cuore aveva smesso di battere, che la sua bocca era contorta in una smorfia di dolore e che le sue manine, ora gelide, stringevano un lembo di stoffa grigia ricamata strappato da chissà dove, ultimo tentativo di ribellarsi a un assalitore che lo stava inesorabilmente tirando a sé.

Il post black metal, oggi tanto in voga, può avere diversi esponenti di spicco, alcuni padri fondatori, ma per come l'ho sempre sentito e vissuto io, un'unica radice, che risponde al nome di "Bergtatt" degli Ulver. Dato alle stampe nel 1995 questo lavoro unisce la ferocia del black metal norvegese (una nera fiamma che proprio in quegli anni stava splendendo con maggior vigore) a atmosfere folk notturne e nostalgiche, in cui una voce pulita e "lontana" aleggia come presenza inconsistente per poi investire l'ascoltatore con glaciale furia cieca. Disco imprescindibile nella collezione degli amanti del black metal, e più in generale di coloro che amano approfondire i suoi risvolti più "post", "Bergtatt" non necessita di tante parole, ma vuole solo che si chiudano gli occhi e che ci si lasci trasportare dalle sue note, abbandonarsi ad esse come ci si può abbandonare al Re degli Elfi.

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