Tutto sommato, me l'aspettavo.

Pensavo fosse inevitabile che gli Ulver si sarebbero in qualche modo riallacciati al discorso intrapreso con lo splendido "Shadows of the Sun" ma, data la natura polimorfa ed imprevedibile che caratterizza i nostri lupacchiotti norvegesi, cercare di fare qualsivoglia pronostico è piuttosto inutile. Le aspettative, però, in questo caso si sono rivelate tutt'altro che infondate: il nuovo album "Wars of the Roses" ricalca in parte le atmosfere del suo illustre predecessore, plasmandole comunque in una nuova dimensione, in un nuovo contesto; e a voler essere pignoli nemmeno mancano certi richiami all'atipico "Blood Inside".

Tutti questi riferimenti, invero un po' strani per un gruppo che da sempre fa della sperimentazione il suo marchio di fabbrica, non dovrebbero scoraggiare, giacché semplici punti di contatto: "Wars of the Roses" non è la scopiazzatura di nessun disco, bensì il prosieguo naturale di quell'intimismo elegiaco e di quella ricerca spirituale che, a quanto pare, costituiscono la nuova veste fissa della band. Siamo di fronte ad un'opera indubbiamente particolare, personale, che non mancherà di dividere ancora una volta i fans (come del resto accade ad ogni uscita targata Ulver!), nonchè di suscitare qualche perplessità.

Non date molta retta ai primi ascolti, diffidate delle fugaci impressioni iniziali, specie se negative, e soprattutto non prestatevi all'ascolto distrattamente: questi sette brani sguscerebbero via come anguille e arrivereste al termine dei 45 minuti senza che vi ricordiate una beneamata ceppa. "Wars of the Roses" è un disco tanto semplice ed essenziale dal punto di vista tecnico (probabilmente una roba del genere gli Ulver l'avranno registrata mentre leggevano il giornale o giocando a briscola) quanto poco immediato emotivamente; non fatevi quindi infinocchiare dall'apertura un po' ruffiana del pop-rock elettronico di "February MMX", col suo ritornello agile e slanciato, perchè poi vi trovereste un tantino spaesati tra le dissonanze 'neoclassicheggianti' e l'incedere incespicante di "Norwegian Gothic", brano che farà storcere il naso a molti per via della sua eccentricità.

Questo album potrà comunque serbare tutte le sorprese e le incertezze che volete, ma su una cosa potremo sempre contare: il buon Garm. Ovvio, il suo cantato non sarà lo stesso di una "Masquerade Infernale", non avremo più lo scream lacerante di un "Nattens Madrigal" e sempre meno spesso lo sentiamo osare in vocalizzi arditi come su "Blood Inside", ma quale altro stile potrebbe adattarsi agli attuali Ulver se non quello contemplativo, profondo, mistico, sommesso, quasi sussurrato, già sperimentato in "Shadows of the Sun"? D'altronde è questa la nuova dimensione dei nostri Lupi: non si punta sull'impatto ma si scava a fondo, lentamente, nei nostri cuori, nel nostro spirito, nella nostra esistenza.

Così questo viaggio esistenziale continua con la splendida "Providence", scandita dal duetto tra Garm e un'incantevole Siri Stranger sui rintocchi decadenti di un pianoforte e chiusa da una coda di rumorismo riecheggiante e maestoso; e, rimanendo in tema di maestosità, "England" rappresenta l'episodio più oscuro dell'album, dapprima sacrale e solenne, poi via via più grave ed inquieto. Di tutt'altra pasta sono "September IV" e "Island": se la prima è completamente assorta nel suo intimismo rilassato (salvo poi lambiccarsi in un finale vorticoso), "Island" si spalanca su sublimi suggestioni paesaggistiche, pulsa di vita propria tra impressioni pinkfloydiane e ricercate infiltrazioni elettroniche, il tutto governato dalla voce del Garm che si libra tra i flutti di una scogliera e canti di gabbiani.

E che dire di "Stone Angels", maratona conclusiva di 15 minuti? Probabilmente chissà quanti oltre a me ci sono rimasti di merda quando, aspettandosi magari il colpaccio sperimentale ultraprogressivo power-elettronico di turno, si sono ritrovati ad ascoltare il brano più etereo e sacrale non solo dell'album, ma degli Ulver in assoluto! "Stone Angels" (le cui liriche non sono altro che l'omonima poesia di Waldrop) è un epitaffio bianco come la neve interamente recitato da O'Sullivan: i suoi rimandi colti ci ricordano che gli Ulver sono stati anche gli autori di un enorme lavoro 'musicaletterario' come "Themes From William Blake's The Marriage Of Heaven And Hell" e che, quindi, è necessario dare una sana lettura alla poesia in questione per dare senso ed immagine a ciò che sentiamo; questo a ribadirci che non sempre la musica può prescindere dalle sue stesse parole. "Wars of the Roses" si conclude così in un candore accecante, indecifrabile, metafisico.

Musica per l'anima, musica profonda, austera, essenziale, minimale, impalpabile: questo è "Wars of the Roses", questi sono gli Ulver del 2011. Forse non verranno eguagliate l'espressività e l'ispirazione di "Shadows of the Sun" (un vero capolavoro capace di commuovermi in ogni momento), forse non tutte le soluzioni risulteranno ugualmente efficaci, ma siamo comunque al cospetto dell'ennesima conferma da parte di un gruppo che non ha mai smesso di stupire in tutta la sua carriera, e si spera non smetterà mai.

Tutto sommato, non me l'aspettavo.

"There is no deliverance
Providence is lost"

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