Siete fan dei mitici Van Der Graaf Generator ? Non conoscete questo loro primo album, trascurato persino dalla recente opera di rimasterizzazione che ha coinvolto tutti gli altri loro dischi ? Bene, premettiamo subito che non è un lavoro così necessario come quelli che giungeranno dopo, ma è soprattutto alla curiosità degli appassionati del gruppo che ne consiglio l’ascolto.

Curiosità che potrebbe trasformarsi in meraviglia sentendo la prima, stupenda traccia. Si tratta di “Afterwards”: intro di organo con successivo intervento della chitarra acustica, sognante, che apre l’atmosfera su spazi aperti… Poi la voce di Hammil, molto dolce qui rispetto alle asprezze gotiche degli album successivi, che declama una melodia meravigliosa, ampia, solare, prima di lasciare il posto ad un delizioso assolo di piano (opera di Banton)… Poi il finale, con il crescendo maestoso della voce… L’impressione è quella di un mondo di luce che si schiude davanti agli occhi, con un divampare di quella calda e soffice malinconia che si avventa nelle profondità dell’animo dell’ascoltatore… Dunque non una canzone nel tipico dark-jazz-prog vandergraffiano, ma più nella direzione malinconico-melodica che successivamente assumeranno brani come “House With No Door”. Comunque un pezzo eccezionale, tra i migliori del gruppo. Da sentire.

Purtroppo, però, la meraviglia suscitata dalla splendida “Afterwards” non è ripagata con le tracce successive, decisamente non così trascendentali, seppure molte siano degne di nota. Rispetto ai dischi che verranno, si sente l’ingenuità di artisti non ancora pienamente consapevoli, manca anche quella peculiare drammaticità oscura, probabilmente anche per la mancanza di un membro così importante, il sax di David Jackson. Molti brani sono in prevalenza acustici, spesso sognanti, come l’ottima “Running back”, che privilegia ancora il lato malinconico di Hammill, che già qui inizia a dare prova del suo timbro eccezionale e della sua camaleonticità. Tra l’altro si avverte già, con quel lungo assolo centrale di flauto, la tendenza progressive (ancora in embrione all’epoca). Pezzo interessante è pure “Ortenthian St.”, un altro ottimo esempio di proto-prog, costituito dall’alternarsi da pezzi melodici e radiosi e accelerazioni sostenute dalle note ripetute con insistenza dal piano, con il cantante in gran spolvero e già a suo agio con i cambi di ritmo e di “mood”; la successiva “Into a game”, molto simile, è invece a giudizio di chi scrive molto meno riuscita, nonostante una sezione finale strumentale più convincente (da notare soprattutto la parte del basso). Dopo i due intermezzi, l’uno, la title track, giocoso e cabarettistico, l’altro, “Black smoke yen”, strumentale per piano, basso e batteria con vene jazzistiche, si passa ad “Aquarian”, che riprende un po’ tutte le caratteristiche già sviluppate dagli altri brani ma senza lasciare traccia sull’ ascoltatore, pesante e poco accattivante dal punto di vista melodico.

Nel finale troviamo invece due ottimi brani, la danza mistica ma orecchiabile di “Necromancer” e forse la traccia che sarebbe potuta stare meglio negli album seguenti, “Octopus”, decisamente dark, che anticipa la tendenza dei VDGG a utilizzare un motivo (in questo caso un martellante riff di organo e basso) e a riprenderlo varie volte durante la canzone, inframezzandolo con intermezzi più lenti: il risultato qui è già ottimale, con una parte centrale lenta e cupa, piena di suspence, circondata da due sezioni speculari impetuose e drammatiche, con la voce di Hammil a farla da padrone con il suo appassionante tono sconsolato e teatrale (una delizia anche le partiture di organo che fanno da sfondo a tutta la canzone).

Un album dunque godibile, che già presenta alcune pecurialità essenziali del gruppo di Hammil, alcune più sviluppate, altre meno, un disco che, secondo me, scorre ancora meglio se se ne diminuisce la durata “skippando” alcune canzoni più pesanti e meno riuscite.

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