Mi chiedevo che entusiasmo ancora potesse generare un nuovo album dei Vanden Plas. Quando una band di classico prog-metal, che non ha mai stravolto o ridisegnato la propria proposta sonora, annuncia un nuovo album non ti aspetti il miracolo, il disco dell’anno, la rivoluzione. Probabilmente l’entusiasmo pre-uscita non è nemmeno così alle stelle, anche se sarai sempre ben contento di ascoltare nuova musica da parte di un gruppo che comunque ti ha segnato.

Quindi non cercavo il miracolo nei Vanden Plas nel 2024… e infatti non abbiamo nessun miracolo, perché “The Empyrean Equation of the Long Lost Things” è ancora una volta un disco prog-metal tradizionale senza picchi evolutivi; però ha qualcosa da dire, sì, ha quel qualcosa di magico che in qualche modo cattura l’attenzione, coinvolge l’ascoltatore e lo tiene incollato alle cuffie per molto tempo. In fondo ci sarà un motivo se, pur nel suo classicismo, ha ricevuto commenti e recensioni entusiastiche, ho provato ad individuarlo e a dare una mia interpretazione al riguardo.

In trent’anni di carriera i Vanden Plas si sono resi protagonisti di una continua maturazione, di un costante perfezionamento, li abbiamo visti nascere come dignitosa e meno appariscente alternativa ai Dream Theater negli anni ’90 e irrobustire successivamente la proposta vestendosi anche di un’aura sempre più concettuale e cinematografica nel decennio appena passato. Più andavano avanti con i dischi e più diventavano sorprendentemente forti e maturi, praticamente in controtendenza rispetto a ciò che solitamente succede, è decisamente più facile vedere una band offrire il massimo all’inizio e calare di lì a poco. Ma negli ultimi due album, i due capitoli di “The Ghost Xperiment”, si aveva la sensazione che la frenata fosse arrivata anche per loro, con brani spesso allungati artificiosamente, annacquati, un pochino prolissi.

Non si avverte la stessa sensazione quando riproduciamo i 55 minuti di questo undicesimo lavoro. La scelta di puntare su poche tracce articolate stavolta non si è rivelata discutibile, i 6 brani del lotto stavolta scorrono molto bene. Nei dilatati minutaggi le parti si incastrano a meraviglia, i singoli segmenti si susseguono con una naturalezza che salta alle orecchie di tutti, naturalezza che sembrava mancare nei due concept gemelli precedenti. Quando si passa da una parte più forte ad una più leggera, da una più veloce ad una più lenta, da una più pestante ad un’apertura più melodica non si avverte mai un senso di forzatura, tutto sembra arrivare al momento giusto e il frammento successivo sembra la perfetta controparte o la conseguenza diretta di quello precedente. Abbiamo quindi un maggior dinamismo strumentale e ritmico, con le variazioni melodiche e ritmiche che tornano ad essere più repentine e meno prevedibili, con il risultato che nei 10 minuti di “Sanctimonarium” o negli oltre 8 di “The Sacrilegious Mind Machine” si avverte una sensazione di fluidità incredibile, i minuti passano senza che l’ascoltatore se ne accorga, ogni brano è un vortice travolgente, e a renderlo ancora più coinvolgente c’è anche una ritrovata possenza melodica (sì, anche la melodia sembrava aver perso colpi).

Il senso di rinascita però si avverte anche nei brani più brevi. “My Icarian Flight” sarà pure il brano più semplice ed immediato (i Vanden Plas ne piazzano sempre qualcuno qua e là) ma nella sua relativa semplicità ed essenzialità si rivela invece un brano sorprendentemente ricco; sarà per l’arioso tappeto di tastiere o per i robusti passaggi strumentali centrali, ma dà l’impressione di non essere soltanto il “singolo commerciale” dell’album. Negli ultimi due lavori i brani più immediati apparivano piuttosto spogli e fiacchi, quando invece sembravano avere un buon tiro mancava il senso della misura e venivano portati inutilmente oltre i 7 minuti. Che dire poi della semi-ballad “They Call Me God”, che sarà pure il brano che amo di meno ma il suo crescendo d’intensità non ha nulla da invidiare ad una “Fireroses Dance” o una “Crown of Thorns”.

Fin qui il discorso sembra volerci presentare un qualcosa di tremendamente ordinario, e fondamentalmente lo è, eppure questo disco ha anche una manciata di cose che in qualche modo appaiono un tantino inaspettate. Ad esempio la lunga title-track introduttiva non era esattamente qualcosa di previsto: una traccia di 8 minuti quasi interamente strumentale, con un dinamismo mai visto prima, che anticipa alcuni temi che troveremo successivamente, che si comporta come una lunghissima introduzione piuttosto che un brano narrante vero e proprio, chi se la sarebbe aspettata?! Ma non era prevedibile nemmeno l’ultima delle 6 tracce, “March of the Saints”: la band tocca per la prima volta i 15 minuti ma lo fa in maniera anomala, leggendo una durata simile uno si immagina il classico brano prog-metal tentacolare, invece vi prevalgono le aperture melodiche e le parti lente, con sporadici inserti heavy, eppure questa posatezza non risulta prolissa, perché la band varia di volta in volta il tema e ogni momento riesce così a distinguersi molto bene dall’altro.

Anche a livello strumentale c’è qualche sorpresa. La più importante riguarda l’uso delle tastiere, perché per la prima volta in trent’anni la band ha un tastierista nuovo; alla fine anche la più longeva e solida delle line-up (trent’anni di carriera sempre con la stessa formazione sono qualcosa di abbastanza eccezionale) ha dovuto affrontare un cambio di formazione, con l’abbandono dello storico tastierista Günter Werno e l’arruolamento del nostrano Alessandro Del Vecchio. Pare che il nuovo membro non abbia avuto un grosso peso nella composizione, eppure qualcosa di diverso nell’uso delle tastiere l’ho notato, poco importa che sia farina del suo sacco o meno: parti di synth striduli e distorti non proprio tipici dei Vanden Plas, ma sorprende anche la scelta di puntare molto su parti d’organo, mai un organo corposo e sgargiante aveva dettato legge nelle loro composizioni. A ciò si aggiunge una cospicua riduzione di quelle parti corali e cinematografiche che avevano segnato l’ultimo ventennio della band. Oltre a questo non ho potuto non notare una maggiore concessione ad assoli di chitarra, mai così presenti e carichi, ma anche un’eccellente prestazione alla batteria, con un drumming capace di offrire atipici virtuosismi.

Non vorrei tuttavia passare il messaggio di un capolavoro epocale o di un disco perfetto, ha anch’esso i suoi difetti e le sue macchioline. Qualche momento un pochino prolisso e tirato per le lunghe c’è, ad esempio gli ultimi 3 minuti di “The Sacrilegious Mind Machine” sono un’evitabile ripetizione, così come non era strettamente necessario che “March of the Saints” durasse 15 minuti, quei ritornelli melodici con quel pochino di chitarrina distorta in sottofondo alla lunga stancano, sono proprio una di quelle soluzioni che digerisco più a fatica, costruirci una buona fetta di brano non so se è una soluzione vincente al 100%. Vi è poi la sensazione che alcuni passaggi potessero essere sviluppati meglio, tecnicamente e creativamente… o forse meglio così altrimenti sarebbero andati troppo comodamente in territori Dream Theater?

Diciamo che questi piccoli accorgimenti mi hanno creato un po’ di difficoltà per molti ascolti, vagavo nel dubbio se considerare l’album grandioso o l’ennesima cantilena prog-metal, poi però mi sono subito fatto trascinare dalla sua incredibile scorrevolezza, quella vince su tutto.

Qualcuno ha azzardato definendolo il miglior album dai tempi di “Christ 0” ma mi sembra un tantino esagerato, anche perché dopo quell’importante disco la band ha continuato a crescere in “The Seraphic Clockwork” e ancor di più nei due capitoli ravvicinati di “Netherworld”, con il loro approccio epico e cinematografico, solo nei due “The Ghost Xperiment” si evidenziava un calo d’ispirazione. Se devo essere ponderato dico che non è un album da sopravvalutare come forse un po’ è stato fatto, non saranno certo i Vanden Plas a riscrivere nel 2024 la storia del prog-metal, ma riconosco che hanno sfornato un esempio decisamente brillante del genere, in grado di sorprendere a suo modo.

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