Un'armonica triste, una chitarra e una voce: "they're waking you up to close the bar, the street's wet you can tell by the sound of the cars. . . ". Così con la dolceamara "Clementine" The Decemberists aprono questa collezione di canzoni di Elliott Smith raccolte nel primo - immancabile - tributo realizzato a poco più di due anni dalla tragica scomparsa del cantautore statunitense. Dalla musica riemerge così un ricordo che non può essere scevro da amarezze, non potrebbe essere altrimenti ripensando alla sua tragedia. Però questa raccolta non contribuisce ad aumentare la sofferenza. Infatti, benché la categoria dei tribute si presti facilmente ad essere inserita ora fra vacui fenomeni commerciali, ora fra operazioni di volgare sciacallaggio musicale, in questo caso riesce difficile esprimere nettamente un giudizio negativo, perché la sensazione che traspare tra le note è quella di un omaggio sincero, rispettoso e pulito. Questo si rivela già dal titolo che si rivolge con affetto a Elliott come se queste canzoni fossero delle cartoline da spedire in cielo da Portland, città natale sua e di tutti questi artisti che hanno deciso di realizzare l'album. Un elenco di musicisti che non raccoglie nomi altisonanti, star degne del mainstream o abituali frequentatori delle major. Encomiabile, inoltre, il fatto che una parte dei ricavi delle vendite saranno devoluti in beneficenza all'organizzazione no-profit "Free Arts for Abused Children" . Per tutte queste ragioni è difficile storcere snobisticamente il naso dinanzi a questo lavoro.
Che poi queste cover non abbiano lo stesso fascino delle canzoni originali, che presentino non poche debolezze e incertezze, che certi arrangiamenti appaiano discutibili è quasi banale se non ovvio dirlo. Il confronto con l’originale non regge, anzi forse non ha proprio senso farlo, perché Elliott Smith, malgrado non abbia avuto in vita la fortuna che avrebbe meritato, possedeva nelle sue interpretazioni un fascino particolare fatto sovente di vitale sofferenza, anche quando la musica era in apparenza luminosa e sognante. Queste versioni, invece, per quanto talvolta ben fatte e sentite, non riescono mai davvero a raggiungere questo spirito. Banalmente bisogna ammettere che non aggiungono davvero nulla. Ma non fa niente, non importa perché non ne avevano intenzione. Il senso dell'operazione è un altro: unirsi per ricordare, magari con un po' di commozione, che diventa retorica solo quando non è onesta e non sembra questo il caso.
Così, senza pensare troppo, fa comunque piacere ascoltare canzoni come "The Biggest Lie" nell'incerta, ma spontanea versione di Dolorean o la riuscita lettura di "Between The Bars" di Amelia o ancora la ruvida "Needle In The Hay" interpretata da Eric Matthews. Certamente alcuni episodi non appaiono proprio felicissimi come l'ingenua e francamente vacua lettura di "Ballad Of Big Nothing" ad opera de "The Thermals", e non so quanto possa essere considerato elegante chiudere il disco con il classico inedito ("High Times" ) che per quanto intenso nell’avvincente interpretazione di Sean Croghan, romanticamente avrei preferito saperlo dimenticato ancora in qualche cassetto dove lo stesso Elliott l'aveva lasciato.
Bisogna ammettere però che, nonostante queste incertezze, le emozioni non mancano, per quanto spurie o isolate. Semmai c'è da chiedersi da dove arrivino. La vicenda personale di Elliott Smith ha un peso, certo, però ascoltando a volte viene da pensare che queste canzoni sono così belle che è difficile rovinarle: c'è qualcosa tra le note, tra le parole che non so cos’è, ma so che non si può cancellare o tradire del tutto. Tutto sommato allora queste suggestioni arrivano proprio dal fascino di queste canzoni, così il disco assume anche il pregio di ricordarci che soprattutto per questa ragione sarà difficile dimenticarsi di Elliott.
Elenco e tracce
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