Beh, obiettivamente qui siamo dalle parti della presa per il culo.

Un conto è pubblicare la vagonata di live che ha pubblicato il Principe De Gregori (a proposito, s'è fermato? No... pubblicherà quello con Dalla... e speriamolo), che comunque gioca dylanianamente con le proprie creature, storpiandole, allungandole, accorciandole, girando loro attorno, facendo lavori da mago, da provocatore, da guizzo della parola e della nota... un conto è propinarci l'ennesima versione di "Stupendo" o di "Albachiara", tutte così uguali, distinguibili solo dal diverso braccio dei diversi batteristi e da qualche piccola variazione nei soli di chitarra.

Davvero tra dischi e dvd non si contano più. Anche perché Vasco ha scoperto la formula, e questo -managerialmente- gli va riconosciuto, e della formula fa parte l'avere sempre almeno tre quarti di concerto uguali. Funziona, e nient'altro. Vasco è una fabbrica perfetta, una delle poche che certamente non hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione. Conta su mille cose, e il ragionamento a riguardo sarebbe lunghissimo..., ma sta di fatto che tra queste mille c'è sicuramente l'abitudinarietà di un pubblico che sa quel che vuole. E vuole, sostanzialmente, sempre la stessa roba.

Un po' come quando si va in certe trattorie che si conoscono da sempre: andiam là che fanno bene gli agnolotti.

E Vasco la sua cosa la fa bene, e sostenere il contrario è da pazzi. Perché si può fare bene, anzi, ottimamente, anche una cosa che ormai può dirsi, obiettivamente, modesta.

Dimentichiamoci definitivamente l'autore giovane, geniale e provocatore (che, avesse fatto la fine del povero Gaetano, sarebbe osannato come genio da tutti gli odierni detrattori - e esaltatori ciechi di Gaetano -), e concentriamoci sulla "fabbrica", quella fabbrica di soldi, di sogni, di abitudinarietà, su quella messa pagana che tutti, almeno una volta (se non molte di più) abbiamo professato e celebrato.

Una messa obiettivamente coinvolgente, perfettamente organizzata e concepita, assolutamente professionale nel senso più anglosassone del termine, nel bene e nel male.

Insomma: un rito, una sorta di monumento nazionale di una nazione che rappresenta e viene rappresentata benissimo. Con le sue banalità, le sue scopiazzature, i suoi lampi di genio, le sue infinite pigrizie e l'altrettanto infinita furbizia.

Amabile e insopportabile com'è l'Italia.

E questo disco, per l'ennesima -e decisamente inutile- volta celebra l'Orazione bene, benino o benissimo come al solito.

E non stupisce che abbia successo pur non meritandolo più di tanto, o forse, essendo l'ennesima riscaldatura della solita minestra, non meritando proprio nulla.

Come non credo che nessuno (con più di sedici anni) si sia stupito quando il Blasco è andato sotto indagine per evasione fiscale (di quelle grosse, roba da barconi, per capirci...).

È l'Italia, baby, e siamo un popolo facile, d'insicuri, di animaletti che, di fondo, amano di più le gabbie strette che i prati su cui correre.

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