Un contegno severo, canzoni quasi indifferenti alla bellezza (o se non altro molto guardinghe e restie ad abbracciarla), come marchingegni esistenziali. Musica che si deposita come fossero stratificazioni di roccia (le pietre della val Seriana), melodie che si rifiutano di sbocciare, un respiro affannoso. L'anelito disperato, la fatica, la frustrata ricerca di una liberazione vera. Il cielo opprimente che non lascia spiragli.

La chitarra elettrica sputa una melassa di ruggine antica, una bestialità atavica che è l'unica vera valvola di sfogo in tredici brani che sembrano incatenati da un ego dispotico. La musica rock in un disco così assume i connotati di una questione estremamente seria, gravosa. Sembra che in ogni riff, in ogni accordo ci si giochi qualcosa di ben più grande dell'esito di una canzone. È in fin dei conti una questione di identità e dignità, un venire a patti con il mondo, un dialogo implicito con l'umanità.

Nell'era che riscopre il rock e lo svende come banale jingle libertino da prima serata, Alberto e soci viaggiano in direzione ostinata e contraria. Melodie minimali, contratte, ostiche, un andamento lento e meditabondo, la richiesta di estrema pazienza che funziona da “selezione all'ingresso” degli ascoltatori. Canzoni scorbutiche, con apparentemente pochi motivetti, a volte quasi nenie sonnacchiose, nebulose che sembrano ripetitive, ma sono invece continuamente variate, con pochi ritornelli cantabili, poche concessioni all'ascolto distratto. Bisogna dare tanto per ricevere qualcosa in cambio da questa band schiva, che esce a sette anni dall'ultimo lavoro.

La muraglia iniziale contro cui ci scontriamo non allenta molto facilmente la sua difesa, lo schermo che protegge il nucleo, il cuore fragile di questi tre folletti di montagna. Tre figure squisitamente inattuali, totalmente avulse dal contesto dello showbiz, che parlano semplice e senza infingimenti, non sanno imbellettare il marcio e lo schifo, non nascondono mai la fatica e la difficoltà di partorire un'opera collettiva. La sporcizia del vivere è sempre lì in bella mostra, il sogno è sempre iperbolicamente lontano. La magia? Un desiderio al passato.

E allora, nella difficoltà quasi ostentata del disco, nel farsi strada tra le maglie fitte e taglienti, a un certo punto il cuore capisce. Ha una visione, tutti i puntini si collegano. Questo non sarà un album di svolta, le cose migliori della loro carriera le hanno già fatte. Ma scaturisce, in qualche modo, un moto di commozione, sanguina di emozione l'anima quando comprende lo stoico tentativo della band di mantenere un'integrità morale in forma di canzone, nonostante tutto. Sette anni per fare un disco, chitarre cattive, melodie impossibili da vendere. Come un carciofo i Verdena ci offrono per prima cosa le spine e le foglie amare, legnose, immangiabili. Solo chi li ama può arrivare con pazienza alla dolcezza interna del frutto.

Commovente ostinazione, incorruttibilità del cuore. I Verdena continuano a non sapersi svendere e anzi, a questo giro chiedono forse ancora più pazienza: rispetto al disco precedente (doppio), c'è maggiore sintesi, meno disponibilità a scrivere singoli, ma anche una più accurata “leggerezza” dei ritmi. Certo, durante i primi ascolti sembra un'accozzaglia indigesta di voce pigra e tanta roba rock un po' pesante (nel senso di ripetitiva, poco ludica).

Ma è il sentiero impervio che chiedono per arrivare alla bellezza. Perché quelle melodie pigre si rivelano accurate, solo un po' introverse, e si snodano in più passaggi senza ritornelli facili. Quella ridondanza di chitarra, basso e batteria man mano scopre la sua attentissima distribuzione, lo scientifico palpitare della bestia rockeggiante.

Non ci sono grandi novità, ma la non-novità è quasi il motivo essenziale di quest'opera: la scelta di essere ostinatamente se stessi, a costo di risultare impraticabili, vendere poco, eccetera. Per questo il disco commuove, oltre vent'anni dopo, gente che ha scritto “Luna” e “Wow” sceglie di rintanarsi in questo avamposto di sincerità e durezza del cuore. Intorno c'è l'apocalisse, i mercanti profanano il tempio ormai da decenni. Qualche fedele trova rifugio nelle architetture rugginose dei Verdena. La salmodia di Alberto si dipana con frasi sconnesse, perché nemmeno le parole possono darci facile conforto.

Siamo noi a dover trovare la strada, tra i versi come tra le sferzate quasi metalliche. Abbiamo una soglia, un sentiero impervio, una parete rocciosa tra i monti bergamaschi. Possiamo scegliere se salire, farci strada un centimetro alla volta, o arrenderci.

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