[Preambolo inutile o Requiem per un ferrovecchio]

A diciott’anni a mo’ d’autodafé, seppellii per un po’ il mio poco passato. All’epoca, abbandonata la scuola, m’ero comprato con tre quarti del primo stipendio un Renault 4 dell’Ottantasei targato Pistoia e, facendo avantieindietro tra la campagna e la città, lavoravo nella cucina d’un ristorante nel centro di Firenze.

Non durò poi tanto quel periodo, come non durarono poi tanto quel vecchio macinino e quel lavoro. Un anno e mezzo o poco più.

Ma tutti i giorni, in solitudine nei lunghi andirivieni caldi d’estate e freddi d’inverno, col culo punzecchiato dalle molle del sedile, ascoltavo girare nell’impianto stereo usato un guazzabuglio di CD presi perlopiù in prestito, con la scusa del consiglio altrui.

Ebbene sì, questa soltanto è stata la mia dimessa educazione musicale.

Tra un cofanetto mezzo rotto con tutti i dischi di De André, Dummy dei Portishead, Spiderland, Bach, Abbey Road, Kid A, Rino Gaetano, Songs of Love and Hate, Post di Bjork, Dig Your Own Hole, la trilogia berlinese, Velvet Underground & Nico, Ravel, i Gorillaz e Cannonball Adderley c’era anche questo disco: Canzoni a manovella.

Chi me l’avesse prestato allora e dove sia finito adesso, non saprei dire.

Ma nella mia testa questo disco, oggi e anche forse dopodomani rimarrà sempre legato a quella vecchia scarna macchina qua e là rugginosa.

A riascoltarlo oggi, invano, ho cercato un filo rosso:

Batracomiomachie per poeti sbronzi e ignavi.

Vaghi lumi e stucchi scalcinati.

Brandelli di storie assonnacchiate fantasticate imperfette. Ineguali e vociferate a mezza bocca.

E un rimuginio, uno sbiascichio aduso a raccontarne in fila una via l’altra intorno a mezzanotte.

Un contenitore usurato dal tempo e ritrovato per caso: fotografie, lettere ingiallite, ventagli, dracme e rubli, elenchi telefonici sgualciti, storie sbilenche e usurate.

Tanti specchi che riflettono sempre un volto diverso (e talvolta niente).

Pianoforti scordati e melodie dimenticate.

Samovar, stuoie, grammofoni e cani barboni.

Una stanca giostra smerlettata che troppo illumina la notte.

Ombre lunghe lunghe e simboli ciechi.

Debordanti e cupe canzonacce, mestamente acconciate.

Ballate zoppe e bigi rondò.

Cocci e reliquie di tempi e di mondi: tra Giulio Verne, Céline e Salgàri.

Romorosi e cenciosi carnevali tra Venezia e Costantinopoli.

Liete baraonde trasognanti. Garenne colorate.

Strade, cantucci e stradine tagliate di sbieco e dispari, brulicanti e pisciose.

Lo spumeggiare salmastro, brillo e carnascialesco, di mozzi mézzi e barcollanti.

Un moccolo spento e bestemmie accese.

Animette innocenti e animelle al sugo di cipolle. Ciotole di trippa e tre soldi sonanti di cacio seduti su di un ruvido scranno.

Cartoccetti unti e astuzie mute.

Logori cappelli, pastrani zimarre e paltò sdruciti ammonticchiati laggiù, su una poltronaccia damascata.

E poi cori sbiasciacati, orchestrine straccione, mappe spiegazzate.

Vespri di città moribonde.

E tant’altre cose, infine dimenticate da Dio e dagli uomini.

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