Espirazione insofferente, occhi sbarrati e rotazione del collo verso sinistra. Immancabilmente verso sinistra.

Troppe smorfie, troppi aneddoti vanagloriosi, troppe crisalidi che s'atteggiano a farfalla, troppo mercimonio camuffato da nobili intenzioni, troppo spreco di aggettivi qualificativi, troppa ostentazione seriosa di "io io io".

Sono snob/alienato? Può darsi. Ma non sono (ancora) così imbecille da non sapere che io stesso mi produco in molti "troppo" di troppo; soprattutto quando sono di luna "buona" e decido di estendere i benefici della mia presenza ad altri che, come me, farebbero meglio a starsene per i fatti loro.

Sono snob/alienato? Io me la racconto dicendomi che, semmai, ho atteggiamenti che paiono snob/alienati. Ma sono tutt'altro. Quando sono al bar, solo, con il mio disturbo di personalità etiloindotto a fare la parte del leone e vedo e sento e percepisco tutta quella fauna che grugnisce, strepita, sbava, si dimena, si contorce, si annienta... Beh, dopo un po' reagisco così: "Espirazione insofferente, occhi sbarrati e rotazione del collo verso sinistra. Immancabilmente verso sinistra".

È, dunque, un atteggiamento da snob/alienato? Neanche. È, semplicemente, cambiare stazione radio: se (dio non voglia!) sono sintonizzato su Virgin Radio non è che Lifegate non esista nel medesimo istante solo perché in quel momento non la sto ascoltando. Devo solo sbattermi a cambiare stazione radio: tutto qui.

Quel "Espirazione insofferente, occhi sbarrati e rotazione del collo verso sinistra. Immancabilmente verso sinistra" è uno scrollarsi di dosso tutta quella oscena impudicizia che vedo e sento e percepisco in ogni dove, un sintonizzarsi su frequenze altre che bypassano quelle che trasmettono solo modalità di comunicazione tipicamente umane.

E come si fa, allora, a non pensare a Vladislav Delay?

Del suo talento narrativo, delle sue spericolate speculazioni ininterrotte, dei suoi tentacoliformi trip saturi di accadimenti ne deliravo diffusamente qui. In quell' "Anima" che, per coloro che si titillano le papille gustative con manicaretti elettronici di gran pregio, rimane tutt'oggi un piatto prelibato assai.

Un gargantuesco piano sequenza di un'ora dove il Nostro sfodera tutti i suoi trucchi di consumato drammaturgo per imbastire una pièce gravida di fuggitive comparse e proteiformi scenari. Ed è proprio questa, secondo me, la cifra più caratterizzante dei suoi lavori: meno iperuranico di un Alva Noto e meno titanicamente espressionista di un Basinski, Vladislav Delay ha la dote di saper raccontare storie basandosi unicamente sui dettagli ambientali di spaccati urbani d'occasione.

E se "Anima" narra le peregrinazioni diurne di un novello Ulisse joyciano, i quattro lunghi bozzetti di "Entain" - esordio in studio di Delay - parlano di altrettanti Dubliners alla smaniosa ricerca di epifanie dopo che il calar del sole ha attivato in loro un certo qual sesto senso ed ha mondato le vie cittadine sbarazzatesi ormai della loquela umana.

Sì, alfine, stanco di tutte quelle chiacchiere, mi alzo da quel tavolino ed ergendomi a rappresentante - parziale e momentaneo - di tutti gli snob e di tutti gli alienati del globo terracqueo mi perdo nella città deserta sintonizzandomi solo sui suoi suoni.

In "Kohde" (opener del disco) i botta-e-risposta tra sommesse pulsazioni dub e garrule scapigliature glitch traducono in linguaggio sonoro la quieta incombenza di una viuzza dove una manciata di vetri rotti bisbiglia la sua storia alle umidiccie porzioni di un muro scalcinato.

Viene in mente Kandinskij il quale, per fornire di una qualche giustificazione deontologica le sue composizioni astratte, sosteneva che "tutte le cose hanno un suono preciso". Ecco, Delay sembra fare esattamente il percorso inverso: tutti i suoni rimandano a precisi e tangibili agglomerati di oggetti e colori.

E se l'elettronica orbicolare, malferma e vagamente sinistra di "Poiko" sembra dipingere il balletto di luci intermittenti che insegne luminose proiettano a capriccio su una vetrina, le sincopi simil-techno di "Notke" alludono ai recessi di una piazza di periferia passata e ripassata da un ritmo del tutto insondabile che con precisione rigorosa regola l'addensarsi o il diradarsi delle ombre che a quell'ora si destano.

La passeggiata al grigio di bruma si chiude con "Ele", conciliante e raffinato fade out ambientale che culla lo sguardo sino al momento che separa l'ultimo fremito notturno dalle trasparenze ambigue della nascente aurora.

I pezzi di Vladislav Delay parlano il linguaggio segreto degli oggetti e dei colori e - se proprio devo cercare affiliazioni - direi che alcuni lavori di Machinefabriek o di Steve Roden si possono in qualche modo accostare in questo senso, ma con una differenza decisiva: la favella immaginifica degli altri due è spesso e volentieri puntellata da un abbondante (ancorché sapiente) uso del field recording. "Entain", invece, è un disco di elettronica purissima.

E con il giorno ormai nato ritorno anch'io, mio malgrado, agli sterili vagiti della comunicazione ordinaria portando con me la sensazione, anzi, la certezza che storie e sapori ben più interessanti e prelibati vengono raccontate e cucinati tra le pieghe ed oltre le frattaglie che funestano il quotidiano.

Siamo daccapo: è un discorso da snob/alienato? Forse è solo una questione di gusti, per il resto, ungarettianamente parlando, "so di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne".

E per il presente è la stessa cosa.

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