Questi quattro artefici del labirinto musicale che confina col Metal, l’Industrial e il Dark-Punk hanno scelto la loro identità ispirandosi ad un’antica popolazione barbarica; una definizione congeniale dato che, nei primi quattro album, si sono rivelati come dei veri e propri barbari del suono, capaci di sfuriate selvagge e di composizioni grezze.

“Nothingface” dell’89 fu un notevole passo avanti, infatti le musiche diventano più complesse, curate, persino più opprimenti, ma nonostante ciò i Voivod non hanno scordato le loro origini, ed ancora una volta riescono a far affiorare quell’incubo fantascientifico tra i rottami nucleari di una società post-industriale in rovina. Comunque, a parte pezzi come “The Unknown Knows”, dove è ancora l’Heavy Metal a trascinare le liriche volte ad uno scempio cosmico, in genere è l’Industrial a scandire i ritmi e con essi le allucinazioni costanti, le visioni surreali, il caos tecnologico.

La title-track si impone come un rituale meccanico e riesce a scatenare turbamento mente sradica la soglia mentale della realtà, mentre lacera e punge, mentre corre e urta attraverso un inferno chimico. Alla terza traccia è la psichedelica a fare da padrona poiché la band esibisce un’emozionante cover dei Pink Floyd, precisamente “Astronomy Domine”, che anticipa la distruzione e lo smarrimento di tutti i successivi brani, costruiti in modo da rimarcare e delineare le ombre, immagini stesse della confusione, ormai unica legge fisica di questo spazio nuovo. La voce dai connotati freddi e dal timbro metallico che pare spesso provenire da un cyborg è del cantante Snake, essa intona una marcia che corrode le forme e i colori e si esprime lucida nell’apocalisse artificiale di cui è parte integrante.

“Nothingface" è un lavoro che va apprezzato nel suo insieme, in grado di far vivere l’ambiente psicotico, l’odissea virtuale che descrive di un mondo che va alla deriva. “I hope, I need, I want to dream…”

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