"Phobos" non è il miglior lavoro dei Voivod, nè quello che meglio li rappresenta. E' tuttavia un'opera enorme, spesso sottovalutata (o, peggio ancora, non-valutata), ma il cui valore intrinsico è innegabile. Un valore che oggi viene ad accrescersi ulteriormente se si pensa al periodo in cui questo album è uscito (correva l'anno 1997) e alla deriva post-hardcore che di lì a poco avrebbe investito l'universo metal.
"Negatron", primo album senza Denis Belanger dietro al microfono, aveva sancito un ritorno alla violenza ed alla pesantezza dei primissimi lavori, portando con sé più perplessità che entusiasmo. Sia per la brusca quanto inaspettata inversione stilistica, sia per l'ugola piuttosto anonima del nuovo cantante Eric Forrest. Con "Phobos", devo dire, si risollevano decisamente le sorti della band, che dimostra di avere ancora tantissimo da dire. Se infatti l'album in questione stilisticamente non si distacca molto dal suo mediocre predecessore, dal punto di vista della genialità e della fantasia compositiva ci riporta dritti dritti ai grandi fasti del passato.
Anzitutto viene riesumato il buon vecchio Korgull (qui ribattezzato Anark), che torna protagonista di una nuova ed improbabile avventura dopo un sonno durato un bel po' di anni e ben tre album. Torna la formula concept, quindi, ma soprattutto torna la magia/follia compositiva dei Voivod nella sua forma più claustrofobica e visionaria (ed è significativo il fatto che nella opener "Rise" si riprenda un tema presente in "Nothingface"). Non si tratta però di semplice riciclaggio, bensì di una rilettura del passato attraverso l'accresciuto bagaglio esperenziale.
L'arma vincente di "Phobos" è infatti il raggiungimento del perfetto equilibrio fra complessità compositiva e capacità di sintesi. Laddove capolavori come "Dimension Hatross" e il già citato "Nothingface" possono a tratti risultare dispersivi in virtù delle loro continue e stordenti mutazioni, e opere come "Angel Rat" e "The Outer Limits" di contro finiscono per peccare di eccessiva linearità (che non significa banalità, questo sia chiaro!), in questo "Phobos" il dinamismo e l'imprevedibilità vengono sapientemente bilanciati da una rinnovata consapevolezza delle proprie capacità espressive. In altre parole, ogni singola idea viene qui valorizzata e giustamente messa in risalto, ogni progressione attentamente controllata, ogni colpo messo a segno (quando invece in passato poteva accadere che buone idee perdessero di incisività proprio perché diluite fra altre mille meno convincenti).
La musica dei Voivod non è più un'astronave impazzita che schizza incontrollata in tutte le direzioni consentite dall'infinito spazio profondo. La musica dei Voivod è adesso la mutazione genetica di un'enorme piovra spaziale che stritolerà implacabilmente il malcapitato ascoltatore nei suoi enormi tentacoli di acciaio e fili elettrici. Un muro di suono devastante, dato da riff giganteschi, da effetti stranianti, da una dotta stratificazione di chitarre che vanno a mimare l'onda travolgente dell'esplosione di un pianeta, o le spire concentriche di un buco nero che sta per succhiarvi via per sempre. Rifrazioni di suoni, echi, riverberi, risucchi, bordate mostruose che ci fanno pensare alla zampetta del buon Denis D'Amour che si sposta sapientemente lungo una pedaliera di effetti di almeno quindici metri. Il coinvolgente drumming di Michel Langevin, sempre pronto a lanciarsi in trovate fantasiose, ma anche a pestare come si deve, se necessario, o almeno quanto basta per conferire al prodotto la giusta compattezza e potenza. Il basso catarroso e il latrato effettato di Forrest, che se da un lato non è in grado di bissare la versatilità di Belanger, dall'altro sa calare con vera lungimiranza l'atttudine strillata tipica dell'hardcore (e che diverrà standard negli anni a venire) nel contesto alienato e surreale che regna da sempre in casa Voivod.
Quel che ne esce, come spiegavo in apertura, è qualcosa di estremamente attuale, che abbandona definitivamente le sonorità ottantiane in cui si è forgiata l'arte dei Voivod, e che va perfino ad anticipare le sonorità di band come Cult of Luna, prossime ad esplodere. Ma laddove le derive nevrotiche del post-hardcore si reggono su chitarre slabbrate e dispersione di note, i Voivod dimostrano di avere il perfetto controllo della propria materia sonora, dimostrando un rigore progressivo ignoto alle nuove leve del metallo fumante: le progressioni dei King Crimson, la psichedelia spaziale dei primissimi Pink Floyd, le atmosfere stranianti dei Van Der Graaf Generator qui confluiscono armoniosamente, e vengono aggiornate a canoni di inusitata violenza metallica. E siano avvertiti i fan del progressive settantiano: rimarrete ben delusi, se se vi aspettate qualcosa che somigli alla musica degli artisti appena citati, perché i Voivod, contrariamente a qualche banduzza tanto in voga che si definisce metal-prog, non riciclano, bensì assimilano, si appropriano delle lezioni dei grandi del passato, e suonano Voivod al 1000%!
"Phobos" è infatti un unico viaggio claustrofobico e spaventevole (i pezzi sono saldati fra loro) in cui non si risparmieranno assalti thrash-core ("Rise"), sfuriate punk ("Mercury"), vorticose fughe nell'iperspazo ("Phobos"), magmatiche colate noise ("Bacteria"), momenti di quieta fluttuazione nel vuoto ("Temps Mort"), sbilenche architetture metal-prog ("Forlorn"). E i fan irriducibili di Fripp e soci non avranno che da consolarsi con la conclusiva cover dei King Crimson "21th Century Schizoid Man" (una delle due bonus track qui contenute: l'altra è "M-Body", che vede la partecipazione di Jason Newsted ai tempi ancora nei Metallica).
Insomma, se avete amato i Voivod per album come "Angel Rat" e "The Outer Limits" state tranquillamente alla larga da questo "Phobos". Se invece fra i vostri passatempi preferiti c'è quello di sfalloppiarvi il cervello con esperienze ad alto tasso di disturbo psico-emotivo, allora non fate gli snob, non rinunciate alla vera musica, a quella veramente creativa e geniale, ed iniettatevi in vena questa pera di acciaio liquido e corrosivo!
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