Fin dai primi ottanta i canadesi Voivod sono stati tra i responsabili più illuminati della crescita qualitativa all'interno del convulso mondo del metallo pesante, inscenandone una personalissima variabile che li ha visti divenire in pochi anni una tra le realtà più solide all’interno dello stipato girone dei musico-agitati.

Decisamente poco affini al resto dei zappaterra loro contemporanei il quartetto del Quebec ha costantemente cercato una (im)possibile via di fuga tramite un processo di progressiva rigenerazione: sia dal lato meramente esecutivo che da quello iconografico e testuale.

Un suono sempre possente, scorbutico, acido, ricolmo di dissonanze, scevro da pacchiani virtuosismi e da sterili baccanalità tipiche della gran parte dei propri confratelli scassatimpani. Il mastodontico trittico che parte da "Killing Technology" approda a "Dimension Hatross" (forse il loro piccolo capolavoro) e giunge a "Nothingface" partorito nella seconda parte del penultimo decennio del millennio scorso li ha visti protagonisti di una impressionante e costante riscrittura delle proprie coordinate; la critica al tempo non raccapezzandocisi granché attribuì loro la patente di esponenti di punta del Post-Thrash, che in effetti significava tutto ma anche poco e nulla. In seguito ai tre diamanti (sempre meno) grezzi di cui sopra hanno ulteriormente diversificato il range d’azione e tra alti e bassi dovuti anche a fisiologici cambi di formazione hanno realizzato una cospicua serie di dischi sempre comunque di livello perlomeno dignitoso.

“Target Earth”, pubblicato alla fine dello scorso gennaio, li vede di nuovo in pista a quattro anni dall’ultimo lavoro in studio per la seconda volta consecutiva con ¾ della formazione originale: sfortunatamente il chitarrista Denis “Piggy” D’Amour non è più delle lande terrene da svariati anni.

Non appena parte il tumultuoso giro di basso che introduce al disco si hanno i primi sentori di quanto si dipanerà nel corso delle dieci tracce: la sensazione a pelle è che complessivamente il disco risulti ben più solido e convincente rispetto a quanto fatto da parecchio tempo a questa parte e più di quanto obiettivamente fosse lecito attendersi; in effetti è vent’anni abbondanti che un loro disco non suona “autenticamente Voivod” come questo: è come se avessero ripreso in maniera del tutto naturale un percorso mutato tanti anni or sono, senza per questo piombare nel facile tranello del riciclo pedissequo. In soldoni sembra di aver a che fare con i clangori spuri del disallineato “Nothingface” eseguito con la possente veemenza di “Dimension Hatross” ma con una leggerezza d’approccio “rock” conseguenza della mutazione rintracciabile dai primi novanta in poi: “Resistance”, nei suoi sei minuti abbondanti, è il pezzo che racconta meglio di ogni altro il Voivoda versione 2013; è proprio la qualità della scrittura più che il modulo espressivo utilizzato a porsi in risalto positivamente.

E’ chiaro che chi in passato trovava indigesti i loro multiformi siluri psycho-metallici infarciti da clangori percussivi e turgidi saliscendi farà fatica a non trovare ostici, ergo agnostici, anche queste congrue randellate di basalto alieno dalla massa considerevole.

Io, nel dubbio, ri-schiacc(i)erei PLAY.

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