Questi qui non li conosce quasi nessuno. E non c’entra nulla l’odierno gruppo progressive metal australiano… ben prima del loro avvento Voyager è stato il monicker di un quartetto inglese pop-rock, esordiente a fine anni settanta proprio con quest’album. Ne seguirono subito altri due, poi un quarto di reunion negli anni novanta.

Ricordo che questa copertina vistosissima, nel tipico stile dello studio grafico londinese Hypgnosis (tra un Led Zeppelin e un Pink Floyd, un 10cc e un Wishbone Ash), faceva saltar fuori l’album con veemenza delle scansie piene di 33 giri dei negozi. In effetti al tempo mossero abbastanza le acque, in particolare con la canzone che intitola l’album, non riuscendo però a consolidare il loro nome, e sparendo dai radar dopo un paio d’anni.

Il compact disc è introvabile in Italia (stampato solo in Giappone: i giap hanno stampato tutto in cd… pure Tony Astarita, i Renegades, gli Shoes, i Vattelapesc), più facile incrociare questo long playing in qualche fiera del disco.

Il pop rock dei Voyager è eminentemente pianistico, soffice ma non troppo, con molte ballate ma anche spruzzi moderati di rock e anche di ritmiche disco. Il leader della formazione Paul French ne è il pianista e il cantante, una figura che si pone in un qualche punto fra Elton John, Billy Joel, Gilbert O’Sullivan… Ha una buona voce alta e squillante, un po’ sottile. I suoi tre compagni (classico terzetto chitarra, basso e batteria) lo supportano bene emergendo ogni tanto coi loro strumenti e le loro voci.

Halfway Hotel” la canzone è un bellissimo pezzo, con un ritornello molto ben costruito e lanciato dalle strofe. Meriterebbe che fosse (stato) coverizzato da qualche grossissimo nome del rock melodico, per assurgere così a meritevole diffusione e notorietà planetarie. Non mancherebbe nulla come qualità… è estremamente memorabile ed incisivo.

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