...e non era ancora tempo di lupi mannari londinesi, né era venuto il momento di raccontare l'occupazione di Veracruz o l'epopea del mercenario norvegese di nome Roland (per quello si doveva aspettare lo spazio di un album), ma di storie avrete comunque modo di sentirne - mettendo sul piatto, un giorno qualsiasi, uno dei più bei dischi che la vena cantautorale umana abbia saputo concepire. Un debutto che non è un debutto per la storia e la discografia (già, c'è il disco del 1970: "Wanted: Dead Or Alive"), ma lo è a tutti gli effetti per chi con questo album ha cominciato a scoprire un'Anima che nel Rock non ha eguali.
Poetico, ironico, grottesco, surreale, osservatore finissimo di un'America che aveva imparato a conoscere sulla strada, di fatto - un senza-patria venuto dall'Illinois, che nelle vene aveva sangue russo e che aveva scelto Los Angeles come sua casa dopo aver girovagato da costa a costa all'inseguimento di una carriera che, alla soglia dei trent'anni ormai, pareva non dovesse mai intraprendere. Quasi un preludio dei riconoscimenti che avrebbe avuto POI - mai abbastanza, mai commisurati a quegli universi autentici, di varia e multiforme umanità, che i suoi dischi sapevano raccontare. COME Lui li raccontava, con la brillantezza unica della sua penna e quel timbro sincero e profondo, è ciò che ancora genera in me quella commozione che solo i film memorabili (quelli che segnano una vita e ne diventano parte) sanno generare.
Non a caso, Warren è stato uno dei più grandi registi che abbia mai conosciuto. Come Randy Newman (guarda caso, un altro losangeleno "traslocato"...) aveva il dono rarissimo di tradurre in impressioni cinematografiche ogni frammento di vita che riuscisse a colpire la sua sensibilità. Senza alcunché di artificioso o studiato: era qualcosa che gli apparteneva e che spontaneamente rifluiva in ogni sua creazione, sia che ritraesse personaggi storici o di pura immaginazione, sia che provasse a dare sostanza a quel nugolo informe e volubile che è la sfera dei sentimenti. Ma a differenza del Randy di quegli anni (o, se si preferisce, del Tom Waits di "Small Change" che si ubriacava al piano con Louis Armstrong), il suo linguaggio prediletto non era il jazz, né ragtime o quella soffusa orchestralità che richiamava l'America d'inizio secolo; Lui parlava la schiettezza inconfondibile del ROCK'N'ROLL e delle radici dell'America elettrica, dei suoni che quelli della sua generazione avevano ascoltato alla radio da adolescenti - e che ora elaborava nei modi e nelle forme più familiari a quella irripetibile California-anni'70, che - sfumata l'utopia sessantiana - si era emozionata e riconosciuta nelle note e nelle parole del Jackson Browne di "Late For The Sky".
E fu proprio l'amico Jackson ad occuparsi della produzione (ma canta e suona anche) di un album che è Leggenda fin dalle prime note - o almeno, tale lo riconosco riascoltandolo, tanta è la familiarità suscitata da questi suoni. E da queste storie, naturalmente - tutto comincia nella piccola fattoria del Missouri dove due ragazzini (già, non due qualunque... ma Frank e Jesse James) iniziarono a cavalcare e a maneggiare un fucile, e di lì impararono a uccidere da fuorilegge ("outlaws on the losing side": si è mai trovata una definizione più bella?); e dal vecchio West, su e giù ad esplorare uno spettro più che mai ampio di emozioni: le rosee speranze che svaniscono nella disillusione di "Hasten Down The Wind", con una steel guitar da nodo in gola del Sommo David Lindley; il lato perverso e "oscuro" di "Poor, Poor Pitiful Me", che da un mancato suicidio ("avevo già messo la testa sulle rotaie e aspettavo il treno, ma la ferrovia era in disuso" - !!!) si infila nei vicoli malsicuri e ambigui del sadomasochismo ("ho incontrato una ragazza che mi ha chiesto di picchiarla, ma preferirei non parlare della cosa..."); le frecciate all'indirizzo di Marilyn Dillow, a lungo sua compagna di vita, in "The French Inhaler"("droga, vino, e tutte le sere a letto con uno diverso, ma dimmi... si può vivere così?") - ai cori, nientemeno che che due signori di nome Don Henley e Glenn Frey; il funk/r'n'b irresistibile di "Join Me In L.A.", degno dei migliori Little Feat e, manco a farlo apposta, cantato con quella Musa di Lowell George che ai tempi era Bonnie Raitt; e l'epica, maestosa "Desperados Under The Eaves" per i titoli di coda.
Ma quest'ultimo paragrafo, e forse qualcuno se l'aspettava già, lo dedico a quei due pezzi senza cui questo disco non sarebbe ugualmente grande. Uno è "Carmelita", e quel testo e quella dolcissima melodia dagli accenti messicani che si rivelò indimenticabile fin dal primo ascolto, sopra un dramma di droga a cui tanti (amo ricordare Linda Ronstadt e l'immenso Willy DeVille) avrebbero pagato tributo. L'altro è "Mohammed's Radio": in quelle notti spese ad ascoltare musica alla radio ("I heard somebody singin' SWEET AND SOULFUL") si riflette l'essenza stessa dell'Arte zevoniana - musica PIENA di anima e sentimento. E all'unisono con la voce del Nostro, qualcuno si sarà forse sorpreso nel riconoscere quella, splendida, di Stevie Nicks.
Potrei annoiarvi ancora, ma sono finiti gli aggettivi.
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