Ismaele, la voce narrante di «Moby Dick» di Herman Melville, va per mare a vedere la parte di mondo coperta dalle acque, per scacciare la tristezza e tenere sotto controllo la circolazione: magari, se fosse stato un animale terrestre, allora sarebbe andato per boschi, almeno a me accade così.

Ma poi dipende dalla stagione: primavera ed estate a camminare nel bosco, autunno ed inverno a guardare il mare, mi basta questo; anche se vorrei una foresta e un oceano, e allora rimedio con la fantasia, ogni volta che le circostanze mi costringono a bearmi di un orto e un lago.

E se, per Ismaele, l'acqua è il surrogato della pistola e della pallottola, per Hernry David Thoreau andar per boschi realizza il desiderio di vivere con saggezza, dando importanza solo a ciò che è essenziale nella vita e tantando di imparare quanto essa ha da insegnare, per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto.

Insomma, ognuno ha i maestri di vita che si sceglie: tra i miei, ci sono a pieno titolo «Moby Dick» e «Walden».

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È possibile che qualcuno tra quelli che leggono le mie paginette debaseriote si ricordi di Dario Marconcini: tanti anni fa stava in un gruppo chiamato The Electric Shields a suonare garage-punk.

Giusto 30 anni fa gli Shields misero in circolo un ep strepitoso, «Cry Baby Cry»: per me, tra le cose più belle venute fuori da quella scena, lo pensai a caldo nel 1988, lo pensavo nel dicembre del 2017, lo ribadisco pure oggi.

Le strade di Dario e degli Shields però si separarono presto e lui si dedicò ad altra musica.

Non lo definirei un “mio” maestro di vita però è indubbio che mi regala belle sensazioni e suscita ricordi davvero piacevoli: penso che sia qualcosa di importante.

Almeno per me lo è.

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Sembra che mi sto incartando ma adesso ne esco.

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Allora, l'ultimo progetto musicale di Dario, in ordine di tempo, è Watcher of the Trees, il guardiano degli alberi, e qualche mese fa è uscito l'album «Fireflies in the Wood», le lucciole nel bosco.

È quello che si dice un concept-album, con al centro della scena gli alberi e gli uomini e le loro esistenze divise nei movimenti stagionali, così da rappresentare metaforicamente il cerchio della vita; esistenze talmente compenetrate che è difficile concludere se è l'uomo il guardiano dell'albero oppure è l'albero il guardiano dell'uomo.

A qualcosa del genere pensò già Antonio Vivaldi e compose «Le quattro stagioni», uno dei primi concept-album della storia della musica; e già allora il concetto non è che fosse rivoluzionario. Ma chi ha detto che un concetto deve per forza essere rivoluzionario, per essere?

L'importante è che Dario questo concetto vecchio di secoli lo espone in maniera semplice e lineare, comprensibile e accessibile.

Come quando a scuola il prof ha la capacità di farti comprendere il teorema di Pitagora, che è vecchio di secoli, ma mica tutti i prof lo sanno spiegare: io, ad esempio, il teorema di Pitagora l'ho compreso e non lo scordo più da quando, qualche anno fa, visitai il museo della scienza di Parigi; e lì ci sta un triangolo tridimensionale in vetro, con dell'acqua colorata dentro, che gira e gira e gira e il teorema di Pitagora lo fa entrare in testa pure a quelli come me.

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Io non faccio testo e non sono capace di concettualizzare, al massimo sono capace di concettualizzare il garage-punk che Dario suonava ai tempi degli Shields.

Ora Dario non suona più garage-punk ma ballate con forti accenti psichedelici e perfino progressivi: per il pochissimo che conosco, mi ha rimandato dritto dritto ai Porcupine Tree.

Però una cosa me la sento di dirla; ed è che «Fireflies in the Wood» è un disco suggestivo, non trovo altro modo per descriverlo.

Ieri pomeriggio ho caricato il ghetto blaster sulla Cortina, sono saltato su e ho sfrecciato fino al bosco di Manziana; ho parcheggiato, sono sceso ed ho preso il boombox; sono entrato nel bosco, mi sono seduto colla schiena appoggiata ad un albero e per un paio d'ore sono stato là a sentirmi l'album di Dario; e quello che resta sono le suggestioni.

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