Questa recensione è dedicata a Francis.

Ultimamente tra noi è emerso un dibattito dal paragone tra la musica di artisti inglesi e la musica di artisti americani, su quale fosse la migliore delle due. C’è stato un accanimento tale da far condannare interi generi musicali caratteristici di una delle rispettive sponde dell’Atlantico, fino ad accuse di razzismo yankee o british… Ciononostante non bisogna ritenere che questa differenza musicale e forse culturale non esista; soltanto che, mentre per il cinema il divario è notevole e proporzionato alla vastità delle due nazioni, per quanto riguarda il mondo musicale il piccolo Regno Unito riesce a tener testa agli immensi Stati Uniti, arrivando in alcuni momenti della storia rock a primeggiare completamente sul rivale.

Reso comunque merito agli Inglesi di questo, dobbiamo sostenere che non c’è una differenza qualitativa tra i due paesi, e tutto sommato neanche quantitativa. La differenza è culturale, tra un paese - gli U.S.- con radici blues/country/folk predominanti, con una storia così recente da aver subito l’isolamento ad esempio dalla musica classica, dai canti tradizionali medievali, dai madrigali o dalle scoperte poetico-musicali dei trovatori. Questo porta gli States ad aggrapparsi ancora di più alla loro piccola mitologia di gospel neri da prima guerra civile, Buddy Holly e Presley in mille salse, onde californiane e chewingum surf-style e cugini o nipoti di Kerouac come Dylan o Springsteen. Loro stessi insegnano che oltre al retroterra musicale è determinante anche quello fisico, fatto di ambienti unici al mondo come l’Arizona, il Nebraska o la baia di S. Francisco, terre sconfinate e/o segrete, mistiche o caotiche che solo chi le ha viste può capire. L’Inghilterra (e in modesta parte anche l’Irlanda) dal canto suo ha rappresentato il faro d’Europa in un mondo ormai sovrastato dalla lingua inglese; e ha raccolto dall’alto del suo orgoglio nazionale tutte le proprie caratteristiche di ironia velata, relativa eleganza formale, stile introverso ma preponderante, e aggressività snobista ma lontana dalla volgarità più ovvia.

Farò un piccolo esempio prendendo un anno casuale tra i quarant’anni passati dall’epoca dei primi duelli Beatles/ Beach Boys: il 1994. Questo a mio parere può essere un anno esemplare per capire le dolci divergenze tra le due superpotenze in questione: in quel momento entrambe avevano il proprio disco dell’anno sfornato da due band che avevano passato i primi anni’90 in attesa del grande botto commercial-generazionale, rispettivamente i Green Day con “Dookie” in USA e i Blur con “Parklife” in UK. Nel frattempo uscirono sul mercato due esordi che avrebbero cambiato in modo altrettanto determinante il corso della musica dei propri paesi per i rimanenti anni’90: “Definitey Maybe” degli Oasis e l’omonimo primo album dei Weezer, poi da tutti conosciuto come il Blue Album. Mentre i Gallagher pescano a piene mani dal passato inglese tirando in ballo con stile e sfacciataggine Beatles & Wham!, Sex Pistols & Smiths, i losangelini se la spassano beatamente a comporre facili pezzi pop-folk rifrullati in un roboante ma innocuo punk. Non esiste tradizione da rispettare o plagiare, jam psichedeliche alla “Columbia”, qui c’è il trionfo della gioia più solare e innocente, 40 minuti di battutacce da college e “stupid songs with stupid words”. Già la copertina è eloquente: non mappamondi, alcohol e vinili di Bacharach, solo quattro ragazzotti allegri in posa su un semplice sfondo blu e con l’amore per l’immediata bellezza dell’arte pop. Noi alla fine siamo i più fortunati: ce li siamo potuti godere entrambi questi fottuti artigiani del rock’n’roll.

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