Wes Anderson è come il latte: c’è chi lo digerisce e chi no. Non vi faccio perder tempo: “Gran Budapest Hotel” non farà cambiare le opinioni antitetiche di detrattori e fans.

Dovrebbe essere una riflessione, mica troppo originale, incentrata sul vecchio continente pieno frontiere, ostracismo e diffidenza nei confronti di ciò che non si conosce, nel lasso di tempo che precede lo scoppio del secondo conflitto mondiale. I nazionalismi sono in procinto di prendere il sopravvento: è un periodo traballante durante il quale tutto appare grigio, tetro e caratterizzato da un timore imperante. La scena del treno, che apre e chiude il film con un cerchio da Giotto, per quanto faccia sorridere non credo si discosti molto dalla realtà. Migliaia persone sparite nel nulla per una carta non in regola, una parola di troppo. In totale contrasto con tutto ciò ecco a voi l‘arcobaleno del monumentale ed impeccabile Grand Budapest Hotel.

Sembra il miglior Burton nella versione colorata perché questo film sebbene non tratti temi allegri lo fa con una spensieratezza irreale e disarmante utilizzando colori accessi, quasi abbaglianti, per i quali potrebbe servire portare un paio di occhiali da sole. Sono tantissime le inquadrature magistrali in perfetta simmetria; svariati i long take per introdurre le scene e, come nelle opere precedenti, Anderson non lesina l’utilizzo dello scorrimento verticale all’interno degli edifici. Si tratta di un’opera ironica, solo apparentemente evasiva grazia alla costruzione di una trama esagerata, al limite con la farsa, permeata tuttavia da una malinconia di fondo che non intacca il complesso. Mi pare palese il tentativo di emulare Ernst Lubitsch in “Vogliamo vivere!” ma il paragone è inopportuno perché questo film, per quanto sia riuscito, è diverse categorie più in basso rispetto ad una delle cinque commedie più belle di tutti i tempi.

Il coprotagonista è un ragazzo meticcio che pare un incrocio di diverse etnie: mezzo arabo e mezzo europeo incarna lo stereotipo dell’immigrato sul quale devono cadere per forza tutti i pregiudizi razziali. Anderson vuole dedicare questo film ad uno scrittore pacifista austriaco che negli anni 20’ e ‘30 non ebbe vita facile per manifestare il proprio pensiero. Spassoso a tal proposito risulta essere la scelta di trasformare le SS nella Zig Zag Division (ZZ).

Con il sorriso, seguendo la scia profumata dell’impeccabile e dandy concierge dell’albergo (Ralph Fiennes), faremo la conoscenza degli eccessi dei vari protagonisti che si scontreranno per questioni inerenti ad una ricca eredità. Se in "Moonrise Kingdom" l’oggetto sotto la lente di ingrandimento era il periodo degli anni ’60 trovo che questo lavoro sia più pasticciato perché il cast più che incarnare una società sembra un insieme di macchiette, spesso azzeccate, scollegate tra di loro. Assemblare un cast monumentale in un numero infinito di cameo è opera di cucito d’alta moda. Piccole comparsate (Bill Murray/Owen Wilson/Harvey Keitel/Edward Norton/Jeff Goldblum) alternate ad altre più sostanziose (Willem Dafoe/Adrien Brody/Jude Law) fanno da prelibato contorno ai due protagonisti. Anderson a mio parere fa un lavoro egregio e nel complesso nessun attore appare fuori posto. Tale aspetto è fondamentale per non spezzare il ritmo di un lavoro che, con i tantissimi cambi di scena imposti dal regista, lineare non lo è affatto.

Considerare, come ho letto altrove, “Grand Budapest Hotel” come una commediola estetica priva di contenuti la troverei un’eresia ma ciò non toglie che bellezza visiva sia oggettivamente straripante e prenda il sopravvento sul resto. Potrebbe essere normale uscire dal cinema leggeri e felici, ostentando una profusione di sorrisi a trantadue denti, realizzando solo in seconda battuta la profondità e la pesantezza dei temi trattati. Quando negli anni ’90 da imberbe adolescente brufoloso “guardavo” con estrema dovizia e puntuale frequenza le fotografie, spesso impiastricciate, di Claudia Schiffer non mi ponevo troppe domande su quale fosse il suo quoziente intellettivo. In un modo simile inquadrature da pelle d’oca, utilizzo impeccabile di colori e telecamera, uniti a scenografie degne di una mostra di arredamento; tutto questo in parte offusca, e forse compensa in prima battuta, le piccole mancanze del film che assume talvolta i connotati di una sfilata di moda.

In una riga: non il miglior Wes Anderson ma ciò non toglie che quest’opera sia una fellatio per gli occhi. Tre sono poche, quattro mi paiono eccessive.

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