"Cosa vorresti essere da grande?"

"Non lo so. Voglio vivere delle avventure, credo. Non rimanere in un posto."

Sam e Suzy, Moonrise Kingdom

Il cinema di Wes Anderson è fatto di corsi e ricorsi, di dichiarazioni d'intenti, di riflessioni interne. Ogni film di Wes Anderson è il pezzo di un mosaico, e ognuno di essi esprime qualcosa di più profondo rispetto alla superficie di un'immagine, chiusa all'interno di un'inquadratura simmetrica. Il mosaico andersoniano è una precisa visione della vita, i personaggi del regista texano - nonché dei suoi compagni di viaggio e co-autori, su tutti Roman Coppola - sono una rappresentazione di un modo particolare di stare al mondo. Attraverso una narrazione che è sempre disposta in capitoli, che siano atti di una piece teatrale, stagioni, flashback, articoli di giornale, episodi, scatole cinesi... o semplicemente sogni.

"Io non vivo in nessun luogo, non ho nessuna cittadinanza non ho bisogno dei miei diritti umani"

L'avventurismo, l'assenza di legami fissi con un territorio, l'amore piuttosto per il movimento, sono tutte caratteristiche che hanno pervaso il cinema del grande cineasta americano fin dai tempi de Le avventure acquatiche di Steve Zissou, passando ovviamente per il capolavoro Grand Budapest Hotel.

Oggi, con La trama fenicia, Wes torna, a tratti, a quel tipo di atmosfera, e soprattutto a quello spirito avventuristico; dopo che nei lavori più recenti, almeno nel precedente Asteroid city, era stato attenuato, messo momentaneamente da parte. In favore di un film complesso, impegnativo, teorico, forse astruso ad una prima visione, che faceva il punto su tutto il senso della poetica andersoniana. Ora, dopo soli due anni, non è facile venire dopo un lavoro come Asteroid city, opera massima e definitiva, per quanto mi riguarda.

Il modo migliore era quindi, probabilmente, tornare all'intrattenimento di una vicenda sì dall'intreccio intricato, ma sostanzialmente lineare, più semplice da seguire e molto più divertente. Non per questo, però, La trama fenicia è un lavoro in tono minore e meno interessante, anzi.

Al di là della cura come sempre maniacale del dettaglio e dell'estetica, che rende ogni frame simile a un quadro, La trama fenicia parla di quel di cui tutti i film di Anderson parlano: della morte.

Se Asteroid city era una enorme metafora della morte e della caducità umana, e di quanto il processo creativo serva come catarsi da qualcosa di inconcepibile ma ineluttabile per chiunque, La trama fenicia parla di come si tenti sempre di sfuggire all'incontro con l'inevitabile dipartita. Anche se non è possibile fuggire per sempre, vale sempre la pena di non arrendersi e di restare attaccati alla vita, finché se ne ha la possibilità.

Asteroid city era un'opera ricolma di riflessioni esistenziali, Grand Budapest Hotel portava in sé la malinconia struggente di un romanticismo perduto nella dimensione terrena, ma sempre presente nell'anima, come il ricordo di chi si è amato e visto andarsene. La trama fenicia non tocca vette di questo tipo, ma coinvolge con un'esperienza cinematografica straordinaria, che porta alla mente lo spionaggio hitchcockiano, oltre a pezzi che, addirittura, rievocano Kurosawa e Dreyer, come gli squarci onirici in un incredibile e splendente bianco e nero.

Squarci onirici che si schiudono, all'interno del racconto, come scatole magiche, contenenti per l'appunto sogni, pensieri, ricordi, paure inconsce, sensi di colpa, desiderio di redenzione.

La trama fenicia è ateismo e religione, ideologia e affarismo, gli opposti di un mondo novecentesco sempre più prossimo a svanire nella pioggia.

L'avventura andersoniana, difatti, è (quasi) sempre ambientata nel passato, non casualmente, e qui non fa eccezione, come se il presente che viviamo, così corrotto dalla tecnologia moderna, non potesse più restituire un certo modo di cavalcare gli eventi e proprio la vita stessa, un certo modo di vivere. è quindi nel mondo del passato - qui gli anni '50, come nella finzione di Asteoid city e negli episodi di The french dispatch, in Moonrise Kingdom i '60, in Grand budapest ancora più indietro negli anni '30 - che si può cercare lo spirito che oggi non c'è più. Come se fosse proprio il passato stesso quella affascinante vecchia rovina, che non ci è più dato di rivedere.

Wes Anderson è e sarà sempre questo, l'artista non può cambiare. Così come non avremmo chiesto a Picasso e Botero di dipingere paesaggi, o a Fellini di dirigere un western all'italiana, non possiamo chiedere a Wes di lasciare il suo universo, o di smettere di dipingere nuove parti del suo grande, immenso mosaico di avventure, personaggi caratteristici, romanticismo, umorismo sagace e attesa della morte.

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