Ci sono stati momenti, e non pochi, in cui le mie pupille hanno rimbalzato qua e là nelle immagini come palline di un flipper. Lo sguardo non sapeva bene dove soffermarsi, tanti erano gli elementi degni d'attenzione nelle scene accuratamente costruite da Wes Anderson. Avrei tanto voluto rivedere quei passaggi, subito, per gustarne più pienamente la ricchezza: personaggi disseminati ovunque, scenografie irrealistiche, palazzi, aerei, strade, carceri, una città che vive di singoli individui e momenti corali, sale da pranzo, celle, musei, tre storie, raccontate da tre giornalisti particolarmente capricciosi e propensi alla digressione.

Una costellazione di intermezzi, sovrapposizioni narrative, cornici, salti indietro e avanti. E poi un linguaggio pieno di arzigogoli, momenti poetici o farseschi, giocati tra dialoghi al limite del delirante e voci narranti sofisticate. Un'infinità (almeno) di giochi estetici, preziosità donate a piene mani, un rovello estetizzante che non conosce tregua. Il cinema come capriccio di un genio che non ci pensa nemmeno a raccontare un fatto in modo piano e lineare. Perché in primo luogo sta raccontando se stesso, la sua arte che tutto fagocita e restituisce con una filigrana inconfondibile.

E ancora, l'uso emotivo dell'alternanza tra colore e bianco-nero, musiche che dialogano con i fatti in modo spesso sorprendente, una galleria da stropicciarsi gli occhi di attori che sembrano quasi recitare se stessi, talmente sono misurati per le parti, una serie di riferimenti a tre o quattro settori del giornalismo ripresi con acume e ironia nelle tante finestre deformanti della matrioska narrativa che è questo film. Una divertente cornice editoriale che è stratagemma per cucire insieme storie, che solo in apparenza non hanno nulla in comune. Serve una lettura attenta, e in mezzo a cotanto ben di dio è facile perdersi, ma Wes mette in fila una serie di vicende non solo e non tanto per giustapporre artifizi estetici e personaggi bislacchi.

Come dimostra con la sua arte, qui estroflessa come non mai, il regista ricerca nelle cronache non ossequiose del French Dispatch una libertà di espressione, una necessità di raccontare anche gli imprevisti, le questioni collaterali, i contesti e le sottotrame meno edificanti, o anche i recessi più divertenti di una realtà che può apparire drammatica, che evidentemente si stanno perdendo. Il suo elogio, che sfiora più volte l'incomprensibilità, è tutto rivolto alla devianza che è in fondo la forma più alta di arte. La necessità di approfondire ossessivamente per capire davvero, per godere della vita e dei suoi simulacri, il bisogno che l'arte ha di richiedere ai suoi fruitori un impegno massimo, estremo, quasi insostenibile, per essere davvero arte.

Nei pezzi della rivista, nelle narrazioni sfrenate, così come nell'arte cinematografica di Anderson si sottende un concetto che forse oggi può risultare indigesto: il rifiuto della semplificazione, il bisogno disperato di aggiungere elementi e chiavi di lettura, prospettive, linguaggi verbali e visivi, di arricchire (anche attraverso una complicazione che in un primo momento può respingere) ciò che un autore intende raccontare.

Questo film è una provocazione, una cascata di arte per dire no all'impoverimento che minaccia il cinema come il giornalismo, la letteratura. In poco più di un'ora e mezza c'è più tecnica, visione, musica, parole ricercate, giochi ironici, recitazione, storie di umana eccezionalità e riferimenti intrecciati al mondo (reale o cinematografico) di intere serie TV, di decine di esse, ammucchiate, o di altri prodotti liofilizzati per visioni distratte. Qui invece la visione vi sfinirà, poi ne chiederete ancora.

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