Sono un ritardatario. Ma meglio tardi, che mai.

La creatura dal pelo biondo, lo sguardo da cerbiatto, l'ugola da usignolo e le capacità compositive tipiche soltanto di una piccola fetta di (fortunati?) eletti appartenenti a quella che teoricamente dovrebbe essere la razza animale di maggior levatura, non è un mostruoso umanoide mutante sorto dalle ceneri di uno zoo, bensì la graziosa cantautrice - al secolo Casey Dienel, classe 1985 -, pianista e tant'altro che, dopo aver esordito nel 2006 con un prescindibile disco omonimo, ha rinnovato la sua cuticola, ideato il progetto White Hinterland e pubblicato, nel 2008, questo primo "Phylactery Factory". Il suo lavoro migliore.

La sua voce è l'anello di congiunzione tra il soprano della Mitchell, il timbro di Harriet Wheeler (Lindberghs + Metal Bird) e il fiabesco cantato della Newsom. E nella sua musica, un indefinibile alternative-pop dalle venature jazz, fatta di atmosfere ataviche, antiche (The Destruction of the Art Deco House), filastrocche dolci come il miele (Hometown Hooray) e nenie su cui la deliziosa voce incerta della Deniel si spezza (Calliope), è racchiuso l'elisir della tranquillità.

Le influenze sono davvero tante; oltre alle già citate, non si può fare a meno di notare le atmosfere trasognate à la Lisa Germano su A Beast Washed Ashore, un crescendo di matrice arcadefireiano in Napoleon at Waterloo, i tentativi ballabili di Laura Nyro in Dreaming of the Plum Trees, Regina Spektor, e Cat Power da qualche altra parte. Forse nel pian(t)o di Calliope.

Il canto del cigno dell'opera è la conclusiva Vessels, brano pressoché scisso dal resto del disco; una sorta di litania funebre - qualunque cosa voglia dire - per ukulele, per celebrare com'è giusto che sia la fine dell'epopea della fabbrica del filatterio.

Insomma, a me è sfuggito per tre anni, voi non perdetevelo da questo momento.

Consigliat(issim)o.

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