In principio furono i Deep Purple. L’ennesimo litigio tra Blackmore e Gillan per chi dovesse vestire i panni della primadonna del gruppo vide prevalere il primo, e tanti saluti al vocalist più capriccioso di tutta la storia della musica. Al suo posto un giovanottone biondo, fluente chioma altezza spalle, stile angelo vendicatore e una profonda voce da bluesman: David Coverdale con i Purple incide l’ottimo Burn e il meno fortunato Come Taste The Band. Quindi saluta, perché il maniacale perfezionismo di Blackmore sta facendo saltare i nervi anche a lui, l’emblema della pazienza. Separazione consensuale, si direbbe, senza i tumulti che portarono Gillan a sbattere la porta, ma sempre di separazione si trattò. E qui finisce il primo capitolo, quello dedicato ai Deep.
Quindi vennero i Whitesnake: grazie proprio a Coverdale che, ispirato dai DP, si era messo in testa di creare una blues band che sapesse strizzare l’occhio al dilagante hard-rock, senza degenerare. Qualche album tra il più che sufficiente, il discreto e il buono meno meno, quindi questo gioiello : Trouble, anno di grazia 1978.
La miglior produzione del Serpente Bianco: tutto funziona a meraviglia, a cominciare neanche a dirlo da Coverdale, che offre una prestazione canora di livello formidabile in tutti e nove i pezzi cantati.
Ma il motivo per cui i fans di David e soci ascoltano e riascoltano Trouble più di Saints And Sinners, tanto per citare un altro ottimo lavoro dei Whitesnake, lo si individua nella formidabile gara di bravura tra i responsabili della sezione ritmica: basso (Neil Murray) e batteria (David Dowle) inscenano fin dal primo brano una sorta di vicendevole inseguimento, rincorrendosi, scattando in avanti a turno, riprendendosi, tornando uno di fianco all’altro con impeccabile puntualità. Un botta e risposta che il resto della band sembra approvare senza drammi, accettando periodicamente, all’interno della quarantina di minuti di durata del disco, anche di uscire di scena, lasciando la ribalta ai colleghi. Non importa se alle tastiere c’è un Signore di nome Jon Lord, altro ex Purple che non ha la prosopopea di Gillan e Blackmore e che, quindi, con l’umiltà di un semplice operaio, si accontenta di timbrare semplicemente il cartellino dell’ordinario.
Ma dire che tastiere e chitarre – ben due, con Bernie Marsden e Micky Moody a farle miagolare – in Trouble facciano solo da contorno significherebbe ridurre la grandezza di un disco impostato proprio sulla perfetta commistione dei sound individuali: se avete voglia di divertirvi e volete una prova a quanto appena detto, The Time Is Right To Love e l’hendrixiana Free Flight; la title-track, la strumentale Belgian Tom’s Hat Trick e Don’t Mess With Me o Take Me With You qualora vi interessi fare un po’ di più sul serio.
Un mosaico uniforme di genialità e classe, raffinatezza e perizia, in cui tutti fanno egregiamente il loro, senza disturbare l’ascoltatore con eccessivi sfoggi di tecnica: un disco che finisce troppo presto e che sembra quasi peccaminoso rimettere nel lettore dopo l’ultima nota, quasi si temesse di non riuscire a raggiungere lo stesso picco di inebriamento dell’ascolto appena terminato. Provateci, invece: risultato positivo garantito.
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