Da quando David Coverdale forma i Whitesnake (nomignolo affiabiatogli dai fans durante la militanza nei Deep Purple) nel 1978 ha un solo pensiero in testa: il successo negli U.S.A.

Le tre versioni con tre differenti tracklists (U.S.A., Giappone ed Europa) assicurano, invece, un clamoroso successo planetario che va ben al di là delle più rosee previsioni: evidentemente, perché “Whitesnake 1987” è un vero e proprio capolavoro e la sua difficile gestazione (tra cambi di formazione e un’operazione alla gola) non fa altro che lievitarne la grandezza. Ad accrescere la fortuna di questo autentico manifesto dell’ hard rock classico è, peraltro, l’ispiratissima prova alle 6 corde di John Sykes che dopo il tirocinio nei Thin Lizzy (al fianco del compianto bassista-vocalist mulatto Phil Lynott) raggiunge il suo status definitivo e regala all’ascoltatore la sua personalissima lezioncina di chitarra.

A partire dall’opening song, la zeppelliniana “Still Of The Night” (nelle intenzioni dei due sicuramente il pezzo forte) Coverdale & Sikes sgombrano subito il terreno da eventuali equivoci, noncuranti di sfoderare un per nulla velato attacco destabilizzante allo status simbol rappresentato da Plant & Page (l’ode a “Black Dog” è palese). Manifesta è la prova d’orgoglio del duo che, tra riffs, violini ed acuti al fulmicotone, azzeccano il colpo e continuano a rincorrersi, con risultati apprezzabili, ancora una volta nell’incalzante rock‘n’roll targato “Bad Boys” (con un’inedita, per i Whitesnake, doppia cassa a farla da padrona). Un successo del genere non si spiegherebbe senza una sezione ritmica di valore, come quella composta dal vecchio amico Neil Murray (ritornato nei Whitesnake) al basso e Aynsley Dunbar (ex Zappa e Journey) alla batteria: ineccepibile il lavoro di tessitura svolto dai due nelle retrovie come nel caso di “Gimme All Your Love” in cui un rabbioso Coverdale infiamma i cuori rockers del globo. Qui, come in altri vuoti dell’album, il mantello tastieristico di Don Airey (che aveva già collaborato con i Rainbow ed Ozzy; attualmente è entrato nella line-up dei rinati Deep Purple) è davvero impeccabile. Con “Looking For Love” il gruppo sembra prendersi una pausa, ma tanto quanto basta per consentire al singer di esprimere la sua tradizionale sensualità e, grazie all’altra ballata “Is This Love”, Coverdale compie la tanto agognata scalata nelle classifiche statunitensi raggiungendo, addirittura, il secondo posto in quella dei singoli.

Nel bel mezzo, tra capelli cotonati, vestiti cromati ed atteggiamenti «cool», il vero «make-up» che conta, alla fine, è quello su “Crying In The Rain” e su “Here I Go Again”: songs estrapolate dall’album “Saint‘N’Sinners”. Nella prima, il rifacimento delle parti chitarristiche di Sykes è strepitoso e la prestazione vocale di Coverdale è veramente entusiasmante: il risultato è, senza ombra di dubbio, una gemma del genere heavy. Nella seconda Coverdale, addirittura, cala non uno, bensì due assi dalla manica con lo splendido intro tastieristico di Bill Cuomo e l’eccellente assolo chitarristico dell’amico Adrian Vanderberg: il brano imperversa nelle radio statunitensi ed i Whitesnake diventano in breve un’istituzione dello star-sistem americano. Mentre la divertente “Straight For The Heart” e la melodica “Don’ t Turn Away” si mantengono su livelli standard, l’ascolto s’infiamma con l’incessante drumming di un’altra tiratissima cavalcata metallica dal titolo “Children Of The Night” . La closer “You're Gonna Break My Heart Again” assolve degnamente all’onere di chiudere un album espressamente pensato per concquistare l’america, ma che poi finisce per vendere milioni di copie in tutto il mondo.

Quest’album, invero, non inventa nulla, non fa da spartiacque, non è rivoluzionario, ma rappresenta uno degli ultimi meravigliosi colpi di coda di un genere oramai destinato ad un inesorabile declino, mentre da lì a poco Grunge ed Hardcore gli conferiranno il colpo di grazia. Un’opera senza tempo, come si suol dire, dal sound ancora molto attuale. Soprattutto, quest’album rappresenta l’affermazione pura e cattiva (al punto giusto) di uno dei migliori cantanti della storia del rock, autore di performances leggendarie, con quella voce che alterna toni bassi natali ad atroci iper-acuti e con la naturale dimestichezza di chi è un predestinato: il suo nome è David Coverdale.

Recensione di Filippo Guzzardi

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