Jeff si è seduto e ha aspettato.

Jeff non ha assunto il colore della parete che era alle sue spalle.
Jeff ha guardato le stelle del cielo, ben oltre quelle della bandiera. Non c'era motivo di radersi, piuttosto ridefinire l’antitesi tra mondo e sensibilità. E Ludwig van Bee non c’entrava un cazzo!
Jeff ha tracciato queste misure: polvere, terra, ossa, sassi e «pioggia di rivolte» silenziose. Rimpianto un tempo «quando le guerre avevano una fine».

Jeff non è un tricheco. Jeff è una mucca sacra. Rumina il suo poetico sacrificio: i sortilegi del canto, i valori tattili della musica. Così Jeff ha acceso la lampada in pieno giorno, cercando sopra e sotto la crosta delle cose. Nels Cline e Glenn Kotche pensavano a un album che non sarebbe andato oltre la prossima Atom Smasher con costine e fagioli stufati. O lo scompisciarsi per una stronzissima Flying Cauldron Butterscotch beer. Lontani comunque dal pop-psych, dalle progressioni kraut, dal cubismo wave, dalle cavalcate elettriche, dalle folksong che spazzolano i crateri lunari. Lontano dagli arrangiamenti imprevedibili, marchio da "Summerteeth" fino a pressoché “The Whole Love”. Ci impregnamo di alt-folk e del suo sguardo interiore, lavorando per sottrazione: arpeggi, fraseggi, pennate, bordoni, ritmiche lineari che si intensificano, approfondiscono, muovendo e ritornando alla pacatezza iniziale. L’unica legge è la vita.
A far vibrare le nostre fragili corde in un tremore senza remore bastano marce, ballad e valzer: "We Were Lucky”, "Before Us" e "Love Is Everywhere (Beware)".


Jeff viene da un’autobiografia, Let’s Go (So We Can Get Back), da due lavori da solista, “Warm” e “Warmer”, e dallo scarno Schmilco, decimo della band di Chicago.
Jeff si prende la briga di rammendare un mondo, pacificando il conflitto fra senso e suono, fra utopia e disincanto. Ci ricorda il mestiere del musicista. Che la gioia è quella fessura da cui Alice non può passare direttamente.


Jeff si è alzato, rimesso in cammino, con sognanti piedi imbevuti di polvere.

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