Nell'Inghilterra di fine '500 - quando al trono era assisa Elisabetta I Tudor - Shakespeare si trovava nel mezzo del cammin di sua vita, ma la fama e la fortuna delle sue Opere erano già in vertiginosa ascesa.

Questo per via della qualità della drammaturgia? Sì, indubbiamente. Però non è da sottovalutare un altro aspetto: la destrezza con cui il Nostro blandiva il potere, l'abilità da chef consumato con cui cucinava spaccati di eterna Commedia Umana farcendoli con l'uvetta e i canditi della propaganda politica.

Tutta la mastodontica produzione dei "Drammi Storici" è lì a dimostrarlo. Passioni, desideri, vizi e intrighi umani certo, ma - nemmeno troppo velatamente - anche un'apologìa dei Tudor che, immancabilmente, venivano rivestiti da un celeste manto di virtute e canoscenza ad onta degli esponenti delle casate rivali dipinti con colori turpi e fattezze deformi (paradigmatico è il caso di Riccardo III).

Agli sgoccioli del XVI secolo Shakespeare era preoccupato e lo era anche tutta la società inglese. Un'ormai anziana Elisabetta I - donna senza figli né consorte e regina provata dalle mille e più rivolte sedate - non faceva trapelare in alcun modo il nome di un possibile erede al trono e si temeva, alla sua morte, una sanguinosa guerra civile.

In questo contesto si colloca il "Giulio Cesare".
"Commedia"? Evidentemente no. "Dramma Storico"? Neanche, la pièce non narra infatti le peripezie e l'avvicendarsi dei regnanti inglesi. Il canone shakespeariano lo etichetta come "Tragedia".

Ma c'è dell'altro. Il "Giulio Cesare" suona in effetti come un precedente storico, un ammonimento, un messaggio in codice rivolto a Elisabetta I o, se non direttamente a lei, almeno alla sua corte. Un'esortazione a non indugiare oltre e a fare chiarezza il prima possibile.

Il Bardo presenta Giulio Cesare all'apice della sua potenza: vittorioso su Pompeo, acclamato dal popolo, temuto e riverito da un nutrito codazzo di senatori della Repubblica, vera e propria forza centripeta di Roma della quale aspira a divenirne il re. Parla e si muove come un uomo che si senta invulnerabile, ma come Elisabetta è in realtà prossimo alla morte.

Cesare infatti avrebbe molto di cui temere.

Innanzitutto l'invidia che serpeggia sottotraccia negli altri uomini politici della città. La congiura che pian piano si sta addensando alle sue spalle e di cui Cassio ne è la mente promotrice e il reclutatore capo: "di che cibo si nutre questo nostro Cesare ch'egli è divenuto grande? O tempi, siete coperti di vergogna!".

Ma Cesare dovrebbe guardarsi anche da altri tipi d'uomini. Persone che, pur amandolo sinceramente, non possono però non notare la crescente vocazione accentratrice della sua condotta e non vorrebbero vedere Roma sventrata dalle grinfie di un tiranno. Persone come Bruto che pungolato da Cassio a prendere una posizione - "la colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi, se noi siamo degli schiavi" - si risolve infine, dopo un lungo travaglio interiore, a dar man forte ai cospiratori e assassinare Cesare: "consideriamolo come un uovo di serpente che, schiuso, diverrebbe secondo la sua natura nocivo; uccidiamolo nel guscio".

Cesare, soprattutto, dovrebbe temere sé stesso: non basta infatti cogliere i presagi dei cieli e le divinazioni degli esseri umani, bisogna dar loro ascolto. Agli sconvolgimenti naturali che sembrano deragliare dai binari della normalità, all'indovino che gli profetizza la funesta data delle idi di marzo, agli angosciosi sogni premonitori di sua moglie Cesare fa spallucce e ostenta un orgoglio da belva indomita: "i codardi muoiono molte volte prima della loro morte; i valorosi non assaggiano la morte che una sola volta".

All'inizio del III Atto il cesaricidio è perpetrato e Roma gettata nella guerra civile e nella giustizia sommaria. Una situazione che si sarebbe potuta ripresentare ai tempi di Shakespeare se Elisabetta I fosse morta senza alcun erede designato.

La chiave di tutto è come sempre una sola: l'opinione pubblica.

Nella Tragedia è l'ambigua figura di Marco Antonio che, dopo aver dissimulato le sue vere intenzioni a Bruto e a Cassio, riesce a coprire d'infamia l'azione dei congiurati insinuando nel cuore del popolo l'idea che essi avevano tradito, non liberato. Celeberrima è la sua orazione funebre al cospetto del corpo di Cesare al termine della quale, una volta rimasto solo, Antonio mostra il suo vero volto: "ed ora, che la cosa vada avanti da . Malanno, tu sei scatenato, prendi il corso che vuoi".

L'esito è segnato e lo sparuto esercito personale dei rivoltosi non potrà nulla contro l'avversione popolare e l'imponente macchina militare del Triumvirato formato dallo stesso Antonio, Ottaviano e Marco Emilio Lepido. Triumvirato che otterrà sì il potere, ma che non sfuggirà alle successive lacerazioni interne (e annessi spargimenti di sangue) che Shakespeare narrerà in "Antonio e Cleopatra" e che porteranno Ottaviano ad essere incoronato primo Imperatore romano.

Cassio e Bruto preferiranno darsi la morte piuttosto che essere riportati a Roma in ceppi e solo allora, osservando il suo cadevere, Antonio darà a Bruto ciò che è di Bruto: "tutti i cospiratori, eccetto lui solo, fecero ciò che fecero per invidia verso il grande Cesare; egli solo, con pensiero onesto per il bene pubblico".

Elisabetta I morì senza mai indicare l'erede al trono, ma, quasi senza intoppi, il suo posto fu preso da Giacomo I. Le paure di Shakespeare erano esagerate? Forse, ma l'ammonimento del "Giulio Cesare" resta.

Anzi, con po' di spirito di traslazione si potrebbe addirittura spostare l'anatema sulle future generazioni di rivoltosi: se tagliate la testa al Sistema siate risoluti nell'azione, scaltri nella gestione e credibili nell'alternativa.

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