Queste Ali di Acciaio sono un trio olandese che suona un rock melodico con evidenti tinte progressive, ma senza esagerare. Siamo dalle parti degli Asia per dare un riferimento, in altre parole le canzoni hanno quasi sempre durata normale e struttura ordinaria a strofe e ritornelli, senza troppi voli pindarici ma neanche con eccessiva ricerca del “gancio”, della frase musicale facile facile da classifica.
Il richiamo agli Asia è esercitato soprattutto dal timbro vocale del cantante, che è poi anche il batterista del trio (non sto a far nomi perché son tutti e tre Van… qualche cosa e a noi italiani entrano da un orecchio ed escono dall’altro): una voce baritonale discreta e vagamente simile a quella di John Wetton, in tono assai minore comunque. In realtà i ruoli dei tre musicisti in formazione ricalcano grosso modo quelli dei penultimi Genesis, col batterista a cantare e i restanti due a governare chitarra, basso e tastiere; effettivamente qui è là si avverte nella musica dei Wings of Steel qualche richiamo anche al gruppo di Collins, Banks e Rutheford, ma le ispirazioni più evidenti vanno piuttosto ricercate fra le cose più semplici e lineari di Rush e Kansas, con la chitarra elettrica per dire anche assai duretta quando serve, altro che Genesis.
Il disco in questione è datato 1995, dovrebbe essere il loro secondo e si apre (“Stay Away” il primo titolo ) con una fanfara d’organo molto a ‘la Kansas, ben congegnata e rigogliosa, poi però entra la voce che non ha certo il piglio stentoreo di uno Steve Walsh… Da subito traspare una piacevole mediocrità, c’è passione artigianale ma ci vorrebbe un pizzico di sale, di genio, di animosità in più. Altre cose condotte similmente dalle tastiere e perciò con una certa enfasi e densità musicale grossomodo simile al già citato gruppo di Topeka sono “The Kings Blues”, a tempo di boogie e con passaggi ritmici qui e là invero sgraziatissimi, e poi la conclusiva “I Can’t Reach You”, resa interminabile da una delle sfumate più lunghe che possa ricordare (tre interi minuti ci mette il volume generale a calare fino allo zero).
Altrove, quando è la chitarra a guidare la ritmica, vengono in mente i Rush: è il caso di “Into My World” che presenta un assolo chitarristico sopra la sola ritmica di basso e batteria, così tipico nelle cose di Alex Lifeson e compagni canadesi. E’ il caso anche di “It’s So Cold”, soprattutto per via dell’elettrica bagnata di chorus alla loro maniera, ma a questo punto bisogna sottolineare il problema che hanno questi Wings of Steel: il batterista tira veramente indietro… ha un modo di suonare sì variegato e descrittivo, ma che affossa completamente il groove del pezzo. Invece di spingere, la batteria arranca e rende il tutto melodicamente ricco ma tremendamente slegato, privo di swing.
Cosicché i brani migliori appaiono innanzitutto la quasi acustica e funkeggiante “If I’d Say”, con il felice sferragliare degli accordi di settima in up tempo e, come unici contributi elettrificati, il basso e un’assoletto con il pedale wah wah. E poi le due ballate, ossia “Heaven” terribilmente pinkfloydiana coll’inizio acustico ad accordi pieni e poi lo sviluppo più sincopato e ricco di cori, e “Still Together” che è invece malinconica, portata avanti all’inizio e alla fine da uno struggente arpeggio a cui si appoggia una bella e articolata melodia intimista, mentre la sezione centrale strumentale è riservata ad un drammatico passaggio di tastiere, settate con un gonfio suono d’archi.
Elenco e tracce
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