Come disse una volta Robert Fripp, parlando della scelta di affidare a Peter Giles e non a Greg Lake le parti di basso sul secondo album dei King Crimson “In the Wake of Poseidon”: “I bassisti sono di due specie ben distinte, ovvero naturali e non. Coi primi viene tutto più facile, le cose giuste da suonare le trovano in poco tempo…”. Si riferiva al fatto che Lake era al tempo fuoriuscito dai Crimso e già preso a far prove con Keith Emerson e Carl Palmer per il ben noto trio che sarebbe poi stato. Fripp, mollato da tutti i compagni protagonisti quanto e come lui nell’album d’esordio, aveva convinto Lake a mettere se non altro la sua augusta voce sui pezzi di “Wake” allora pronti (tutti meno uno), ma non poteva ottenere che si studiasse ed eseguisse decentemente pure tutte le competenze del basso. Peter, al contrario di Greg, era bassista naturale e fece il lavoro nei tempi ristrettissimi concessi dalla casa discografica.

Tutto ciò per dire che i nostri Wishbone Ash un bassista naturale non l’avevano mai avuto! Fino al 2002, anno di uscita di questo loro sedicesimo album (o a ben pensarci solo in un’occasione... col povero Trevor Bolder transitato una tantum ad inizio anni ottanta per l’album “Twin Barrels Burning” e poi tornato sveltamente dai suoi ben più amati Uriah Heep, per restarci poi a vita).

Con “Bona Fide” arriva quindi questo “vero” bassista, tale Bob Skeat, tuttora al suo posto in formazione dopo vent'anni. La musica dei Wishbone Ash acquista immediatamente profondità, compattezza e tiro. Il suono del suo strumento, classicamente proteso ad invadere le frequenze più basse e solo quelle, smette di interferire col lavoro delle chitarre e delle voci come invece avevano fatto tutti i bassisti che l’avevano preceduto. Semplicemente suonando quello che c’è da suonare in un gruppo rock, e cioè robusti e precisi groove, Skeat porta istantaneamente i Wishbone Ash a un livello di tiro che sin lì non avevano mai avuto. Meno progressive e più hard rock, insomma.

L’altra novità è l’inaugurazione della cosiddetta “via finlandese” alla seconda chitarra solista. Il pelato Andy Powell, divenuto boss del gruppo con la dipartita finale di tutti gli altri membri fondatori, si mette a pescare da questo freddo paese scandinavo per avere un partner alla sei corde e ottemperare così all’obbligatorio parametro Wishbone: due chitarre soliste di pari dignità e importanza in azione. Il prescelto si chiama Ben Granfelt e se la cava discretamente ma diciamo che, nella storia di questa band, è l’unico a non prevalere sul sempiterno Powell! Tutti gli altri colleghi, vale a dire nell’ordine il membro fondatore Ted Turner, il piccoletto Laurie Wisefield, l’americano Roger Filgate, la meteora Mark Birch, l’altro finlandese Muddy Manninen e l’attuale Mark Abrahams si sono dimostrati nei fatti chitarristi migliori del boss!

Il quale approfitta della sua situazione di unico membro superstite e voglioso di mandare avanti il progetto, divenendo da quest’album in poi la voce solista quasi costante del gruppo. Non la situazione ideale, giacché le doti canore di Powell sono assai limitate, pur se affinate e migliorate cogli anni. Ma tant’è… ad ogni modo nei Wishbone sono le chitarre ad imporsi, e quelle restano comunque ottime.

L’album non è un capolavoro ma trotta assai bene dall’inizio alla fine. I suoi vertici sono l’estesa ballata “Faith, Hope and Love” dall’agganciante refrain e dal turgido pieno di organo Hammond (cortesia del bassista Skeat), la discretamente folk “Ancient Remedy” con le chitarre che disegnano melodie per cornamusa, la texana “Changin Tracks” vero e proprio omaggio agli ZZ Top, con quel chitarrismo saturo e caldo, ed infine la saltellante “Shoulda, Woulda, Coulda”, dal riuscitissimo riff a salire.

Per quanto riguarda il resto, l’iniziale “Almighty Blues” è un boogie non trascendentale, “Difference in Time” è cantata da Granfelt e spicca per i bei cori in risposta, l’altra escursione verso il folk “Come Rain, Come Shine” è cantata da cani da Powell ma è notevole il suo inserto strumentale autenticamente progressive, con gli strumenti (anche il pianoforte… sempre ad opera del bravo bassista Skeat) ad incrociarsi virtuosamente e le chitarre a pestar duro; tanto che quando torna la voce moscia di Powell a cantar l’ultimo ritornello vi è un autentico effetto tipo sgonfiamento del palloncino. Ordinari lo strumentale di congedo “Peace” e il pop rock “Enigma”, vero festival di echi ribattuti sulle chitarre e con di nuovo la voce di Powell a mostrare i suoi limiti.

Le solite tre stelle e mezzo degli album “medi” di questa prolifica formazione vanno senz’altro anche a questo “Bona Fide”.

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