2007: gli anzianotti Wishbone Ash hanno messo il pilota automatico da tempo, ossia disco nuovo ogni due/tre/quattro anni e concerti dal vivo ovunque e comunque a finanziare l’attività discografica e promozionale nonché il ristretto ma necessario team di collaboratori tecnici. Il tutto in autogestione alla famiglia Powell, quella con a capo il chitarrista Andy l’unico dell’originale quartetto ad averci creduto fino in fondo, e a crederci ancora, al progetto della Cenere dell’Osso del Desiderio.
Poco importa che, dei quattro musicisti attuali, uno viva negli USA ed un altro ad Helsinki: il wi-fi si è ormai generalizzato, si possono ad esempio trasferire in un attimo file .wav con tracce di chitarra messe giù in Connecticut dall’altra parte dell’oceano, a Londra, e metterle in play in uno studio attrezzato per far suonare sopra ad esse il batterista e ottenere la bella copia della parte ritmica… I tempi in cui Jimmy Page girava il mondo con una valigia piena di “pizze” con le basi del futuro disco dei Led Zeppelin, per vedere di completarle in qualche studio affittato al volo fra un concerto e l’altro, sono acqua passata.
Ed anche questo è un ottimo album dei recenti Wishbone Ash. Alle mie orecchie, l’eccellenza fra le dieci canzoni che lo compongono è rappresentata dalla terza traccia “In Crisis” e, manco a dirlo, per meriti chitarristici più che vocali, melodici o armonici. Il brano parte e si sviluppa assai normalmente come mid-tempo pop-rock, con un paio di strofe e ritornelli senza infamia e senza lode. Ma dal terzo minuto in poi e per ben quattro minuti e mezzo è quasi tutto assolo di chitarra, intervallato giusto da una terza strofa per separare il cambio fra Powell (primo assolo), e Muddy Manninen (secondo). Un’estasi! Specie Manninen, che con il wah wah finale straccia lu core.
Ma anche altre sono le pregevolezze di un lavoro che stranamente pone ai primi posti in scaletta i pezzi (escluso “In Crisis”) meno attizzanti. I più poppettari, anche. Io prediligo invece cercarmi quelli più epici e ricercati, quelli sui sei minuti di durata, con una bella porzione strumentale centrale nella quale gustarmi i giochetti fra le chitarre e/o le variazioni ritmiche dell’ottima coppia basso/batteria.
Tali goduriosi eventi si ritrovano per cominciare nel roccioso rock blues “Driving a Wedge” che al centro si trasforma miracolosamente in un evocativo coacervo di chitarre chitarrine e chitarroni che escono, dialogano, se ne vanno il tutto in squisita maniera. E ancora nell’altro blues “Disappearing”, stavolta semiacustico e atmosferico.
Ultima menzione per la cadenzata e “progressiva” “Dancing with the Shadows” che riesce a riproporre odori e sapori vocali dell’antico capolavoro “Argus” mischiati ad un andamento lento a boogie, un arpeggio di chitarra scavante e ripieno di effetto leslie mischiato a pennellate blues (il solito Manninen…) insomma tutto l’ambaradan che i Wishbone son capaci di allestire quasi ogni volta che pubblicano qualcosa.
Sono le solite quattro stelle di merito: album da otto in pagella.
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