Può un musicista che non ama uno strumento comporre i migliori concerti che siano mai stati scritti per quello strumento? Certo, basta che il musicista si chiami Mozart. Stiamo parlando di un "alieno" che scriveva musica con la facilità e la rapidità con cui le persone "normali" prendono appunti, in ogni occasione: spesso in carrozza, ma per esempio anche durante una partita di biliardo, e pare che il delizioso trio "Kegelstatt" (K 498), scritto per l'insolito organico di clarinetto, viola e pianoforte, sia nato proprio così, da appunti presi "in diretta" su un fogliaccio, ispirati dalle traiettorie e dagli urti delle palle sul tavolo verde. Nessuna meraviglia quindi che un paio di incarichi presi quasi di malavoglia, perché bisognava pur mangiare, abbiano dato luogo ad altrettanti prodigi di equilibrio e raffinatezza. Eppure l'ascolto di questi concerti, come pure dei sublimi Quartetti per flauto e archi, lascia ogni volta il dubbio che i biografi di Mozart, per quanto riguarda la sua avversione per il flauto, abbiano preso una solenne cantonata.

Il ventiduenne ex-bambino prodigio che nel 1778 vagava per mezza Europa alla ricerca di contatti con ambienti musicali un po' più aperti di quello salisburghese era un Mozart relativamente spensierato, ancora lontano dai turbamenti pre-romantici che avrebbero reso unici e immortali i suoi ultimi concerti e sinfonie, per non dire del Requiem. A Mannheim, città dove operava un'orchestra con cui era in ottimi rapporti, ricevette da un certo De Jean, dilettante olandese, l'incarico di comporre due concerti per flauto. Per il secondo (K 314) si arrangiò "riciclando" un preesistente concerto per oboe (K 285), tanto per cambiare godibilissimo nella sua semplicità. Per il primo invece si mise al lavoro senza risparmiare energia né fosforo, e in breve tempo tirò fuori l'ambizioso Concerto per flauto in sol maggiore K 313, fin troppo straripante di idee rispetto alla sua funzione originale di semplice musica di intrattenimento, quella famosa "musica per contesse" che Mozart aborriva. Fin dall'inizio il concerto rivela un'espressività che lo avvicina, se non proprio ai migliori concerti per pianoforte, almeno a quelli per violino, meno intensi ma formalmente perfetti.

Nell'Allegro maestoso iniziale si nota uno scherzoso gioco di parti tra il flauto, che per sua naturale agilità è portato a svolazzare e a perdersi in territori lontani da quello del tema iniziale, e l'orchestra, che con entrate perentorie e vagamente "seriose" lo riconduce spesso sulla retta via. Come spesso accade nei concerti mozartiani è però il tempo centrale (Adagio ma non troppo) quello più coinvolgente. Il sereno dialogo tra flauto e orchestra, l'esposizione di una gran quantità di motivi, il progressivo passaggio da un clima idilliaco ad uno nettamente più elegiaco, i timidi e dolci accenni di frasi incastonati tra i motivi principali, fanno di questo movimento un gioiellino, almeno per gli ascoltatori di oggi. Invece il flautista a cui era destinato fu costretto ad ammettere che quella era troppa grazia per i propri limitati mezzi, e si fece preparare a tempo di record un Andante di ricambio un po' più semplice (K 315, presente nel disco) che manco a farlo apposta è un ulteriore saggio di eleganza e di grazia, di sapore garbatamente pastorale. Il Rondò conclusivo, in tempo di minuetto, ha la freschezza e anche la brevità di un Ländler, una di quelle danze paesane che lo stesso Mozart (tra gli altri) usava comporre in occasione di feste e balli all'aperto.

Dopo pochi mesi troviamo il nostro genio giramondo a Parigi, dove riceve un incarico dal conte De Guines, modesto flautista con figlia suonatrice di arpa (ancora la solita musica per nobili. . . ). A dar retta ai soliti biografi, che mettono anche l'arpa tra gli strumenti avversi a Mozart, dobbiamo supporre che l'incarico fu accettato come una specie di calvario. Ma il Concerto per flauto e arpa in do maggiore K 299 sembra fatto apposta per smentire questa ipotesi. Semplice come imponeva la scarsa abilità dei committenti (un po' meno imbranata l'arpista), ha il suo punto di forza proprio nella grazia limpida e "neoclassica" della combinazione di queste due voci così diverse tra loro, oltre che nel loro amoroso "chiacchierio". Per ritrovare una così completa valorizzazione di questi due strumenti bisognerà attendere le pennellate impressionistiche di Debussy. Apre un brioso Allegro, basato su un inciso iniziale di semplicità disarmante, che però in seguito genera un'abbondante fioritura di fantasiosi sviluppi, fino alla magistrale cadenza, in cui flauto e arpa dialogano teneramente senza il condizionamento dell'orchestra, offrendo qualche anticipo di quella che sarà l'atmosfera prevalente nel celestiale Andantino, uno dei "lenti" mozartiani più ispirati in assoluto. Così cantabile da poter essere tranquillamente fischiettato, con le frasi di ampio respiro del flauto delicatamente sostenute dalle profonde vibrazioni dell'arpa, con la sua pacata tristezza che sembra anticipare Schubert, è un incantesimo musicale a cui si può trovare un solo difetto: quello di finire troppo presto. L'agile Rondò - Allegro che chiude il Concerto è una giocosa gara di bravura tra i due strumenti solisti, che sembrano rincorrersi senza freni, ma la cadenza che anticipa il finale ci riporta per un attimo alla sublime malinconia dell'Andantino. Un ricordino, nulla più, tanto per lasciarci a bocca dolce.

E un bel contributo a questa sensazione lo dà pure l'interpretazione, virtuosistica ma senza eccessi, del flautista Jean-Pierre Rampal, un vero maestro di questo strumento. Ottimo anche il contributo dell'arpista Lily Laskine; defilato e sobrio come si conviene il profilo tenuto dall'orchestra. Un disco che rende pieno omaggio alla grandezza del cosiddetto "Mozart frivolo".

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