E' un Mozart in bilico tra orgoglio e commozione quello che in una lettera del 1785 affida sei fondamentali quartetti per archi, composti nei tre anni precedenti, alla benigna accoglienza dell'amico Franz Joseph Haydn con lo stesso stato d'animo di "un padre che, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran mondo" sceglie di cedere i suoi diritti su queste opere, "frutto di una lunga e laboriosa fatica" a questo "uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte, era di più il suo miglior amico".

C'è l'orgoglio del genio consapevole di sé stesso e dell'abisso che lo separa dai gusti medi della sua epoca, rispetto ai quali viaggia con qualche decennio di anticipo, e c'è la scelta quasi obbligata di dedicare i quartetti all'unico che ne potrà comprendere la grandezza, quell'Haydn che si può considerare l'inventore del quartetto d'archi nella forma in cui lo conosciamo, l'artefice della sua evoluzione da frivolo "divertimento" per violino con accompagnamento di archi a pacata ed equilibrata conversazione tra quattro solisti con pari dignità e importanza.

Ma c'è anche la commozione legata al simbolico distacco da questi capolavori cameristici. Da un lato è implicito che non avranno problemi a circolare per il "gran mondo": lo fanno tuttora, e lo faranno finchè il genere umano non sarà del tutto rimbarbarito; dall'altro lato c'è l'ammissione, rarissima se non unica per Mozart, dello sforzo compiuto per raggiungere questo traguardo. Stiamo parlando di una perfetta macchina da musica in grado di comporre, ove richiesto per sopravvivere, anche meccanicamente e controvoglia, ma senza dimenticare mai, neanche in questi casi, di seminare qua e là frammenti di genio (classico l'esempio dei Concerti per flauto). Qui invece lo vediamo costretto a ricorrere ai suoi inesauribili giacimenti di fosforo, attingendo a piene mani e sfiancandosi in maniera inconsueta, quasi beethoveniana, per tirare fuori una serie di quartetti di profondità tematica tale da far impallidire i predecessori, compresi quelli piacevolmente lievi e gentili composti dallo stesso Mozart sedicenne, che all'epoca si trovava a Milano, e bollati di conseguenza con l'originale etichetta di "quartetti milanesi".

Vere pietre miliari della musica da camera, i sei "Quartetti Haydn" influenzeranno i tardi capolavori dello stesso maestro che li ha ricevuti in affidamento (il vecchio Haydn sopravvivrà al giovane Mozart) e, più avanti, le prime prove di Beethoven in un genere  che in seguito diventerà fondamentale nella sua evoluzione stilistica. Parlarne in blocco in una sola recensione è pressoché impossibile, dato che ognuno ha un'individualità ben precisa. Prendiamo quindi un disco della serie, quello che mi attira di più. Non so quanto  intenzionalmente, ma vi si trovano accostati il Quartetto in si bemolle maggiore K 458 e il Quartetto in re minore K 421, il che è come dire il diavolo e l'acqua santa.

Chi bazzica Mozart non si meraviglierà più di tanto: è tipico di questo autore sconvolgerci con la sua capacità quasi schizofrenica di alternare uno stato d'animo al suo esatto contrario, e ciò stupisce di più se ottenuto attraverso opere appartenenti allo stesso genere musicale, magari (perché no ?) pure poste fianco a fianco nel catalogo Köchel (che è poi quel signore a cui si deve la famosa K). Ci sono illustri esempi nelle Sinfonie (K 550 e K 551) e nei Concerti per pianoforte (K 466 e K 467); nel nostro caso i due quartetti sono rispettivamente il n°4 e il n°2 del prezioso pacco dono per l'amico Haydn.

L'"Allegro vivace assai" che apre il Quartetto in si bemolle K 458 maggiore ci mette subito seri dubbi sulla "lunga e laboriosa fatica" denunciata da Mozart nella sua lettera. Nulla sembra più spontaneo, pervaso da gioia semplice e pura, di queste festose sferzate degli archi in cui qualcuno ha voluto sentire gli echi del corno, appioppando all'intero quartetto un nomignolo assai improprio come "La caccia". L'unica cosa che può azzeccarci qualcosa con la caccia è un'ambientazione serenamente bucolica, ma più che in frenetiche rincorse alla selvaggina questo placido moto perpetuo, che non si arresta neanche nei sucessivi intricati sviluppi dell'idea di base, ci immerge in ampie, idilliache scene campestri. Impressione rafforzata dal successivo "Menuetto moderato - trio", situato nell'insolita posizione di secondo movimento invece che di terzo come si conviene ad un minuetto che si rispetti. Le vigorose ma non inquietanti sferzate dell'Allegro iniziale si placano in un'atmosfera quasi stagnante, in cui si stenta a distinguere anche l'usuale pausa di riflessione del Trio, che in realtà interessa l'intero minuetto.

E' il gradino ideale per scendere ancora più in profondità, nell'altissima densità espressiva del sublime "Adagio", unico movimento del quartetto in cui la malinconia non si limita a fare capolino dietro le brillanti evoluzioni degli archi, ma si insinua con una dolce progressione nelle estese frasi cantabili offerte dai due temi principali e dalle loro combinazioni. L'ascoltatore è ipnotizzato, partecipa ai raffinati dialoghi tra i violini e il violoncello, finché non provvede a riportarlo sulla Terra  un deciso schiocco di dita: è il "Molto allegro" finale che, come dice chi sa le lingue, fa da ideale "pendant" al primo movimento, ma con una dose maggiore di argento vivo. Qui i violini sono come giocosi delfini che spiccano salti sulle onde, alte ma non tempestose, mosse dalla viola e dal violoncello.

Voltiamo pagina, è proprio il caso di dirlo, con il Quartetto in re minore K 421. Già la tonalità è particolare: è quella delle "grandi occasioni" (Concerto K 466, finale del Don Giovanni e soprattutto Requiem), usata da Mozart con il contagocce. Ecco che il Mozart solare del quartetto precedente non esiste più: al suo posto c'è un Mozart mutante, agitato da una tensione disumana, scosso da una disperazione senza scampo. Beethoven è davvero lì dietro l'angolo, e non quello giovanile dei primi quartetti o del "Settimino", ma proprio quello dei mesti, sconsolati adagi dei quartetti "Razumovsky", tanto per restare nel genere. I violini che avevamo lasciato in tripudio ora sembrano tirati per i capelli, strillano isterici il tragico tema dell "Allegro" iniziale ("Allegro un par di zeri", direbbero a Empoli, ma noi classicomani usiamo dire "Allegro" per "mosso": posso garantire che ci sono degli "Allegri" di Brahms che fanno piangere come mascheroni). Le impennate furibonde dei violini sono assecondate quasi passivamente da viola e violoncello, e quando il movimento  giunge al termine ormai la tensione accumulata è tale che ci si può facilmente  immedesimare nelle corde degli strumenti. Il saggio Mozart a questo punto pone, stavolta in posizione canonica, un "Andante" che, pur teneramente malinconico, rispetto a ciò che abbiamo appena ascoltato si rivela una specie di benefica tisana calmante.

E nella sua posizione naturale sarebbe anche il minuetto, ("Menuetto. Allegretto - Trio"), ma chi riuscirebbe a scovarci dentro qualche residuo dell'allegria mondana che si usa associare al ballo che in origine portava questo nome ? Teso e rigido, forse un po' meno solenne di quello assai più noto della Sinfonia n° 40, ma altrettanto commovente, se non di più. Per trovare uno sbocco finale all'inquietudine di quest'opera straordinariamente in anticipo sui tempi, Mozart ricorre ad un "Allegretto ma non troppo" in forma di tema con variazioni, tema tra l'altro "riciclato" da una sua Sonata per violino e pianoforte (K 374). Per quanto sia il tema che le variazioni abbiano un tono piuttosto dolente, la ripetuta esposizione di estese frasi musicali e l'ulteriore trovata di una sdrammatizzante impennata finale fanno sì che questo finale si presti abbastanza bene allo scopo suddetto, anche se non può bastare a "disintossicare" completamente l'ascoltatore da ciò che ha assorbito.

Il Quartetto Alban Berg, di cui sono giustamente rinomate le interpretazioni beethoveniane, contiene nel suo stesso nome l'idea di "modernità", il che farebbe pensare ad un approccio preferenziale nei confronti del turbolento K 421. Per quanto può captare il mio orecchio non ho notato questa ipotetica differenza tra le esecuzioni: entrambe sono impeccabili, come le opere in questione.

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