"2046" di Wong Kar-wai è un sequel di "In the Mood for Love" e segue lo scrittore Chow Mo-wan (Tony Leung), ossessionato dalla donna che ha perso. Chow, nella Hong Kong degli anni '60, cerca la donna e se stesso tra varie amanti e nella scrittura di un romanzo di fantascienza, raggiungendo con un treno iper tecnologico un luogo futuro in una stanza d'hotel, la numero 2046, dove i ricordi perduti possono essere ritrovati.
Hong Kong è luogo mentale, fumo di sigarette, neon sospesi tra nembi di nuvole fucsia.
Intercity di ghiaccio, carrozze disseminate di madeleines, in viaggio verso gli amori perduti. Specchi e riflessi come frammenti e mosaici stagnanti di identità perdute. Un treno immenso che viaggia verso luoghi dove si può ritrovare l’amore rimembrato. Volti persi tra nebbie emotive che sembrano parlare nel silenzio. Wong Kar Wai in questo sequel monta un grande circo equestre surreale dove l'effetto di seta circuisce e la sostanza è essenza latente. Siamo distanti dal tocco cinematografico e divino di “Fallen Angels”, da quella Hong Kong che la fotografia di Christopher Doyle trasfigura in un labirinto emotivo, la città spazio fisico e tangibile che riflette vita ed angoscia dei personaggi. Snaturare il sogno stilizzato di "In the Mood for Love" è come risvegliarsi da quel lungo miraggio di cultura asiatico e renderlo accessibile a tutti, europei nordici ed anglosassoni, globalizzare la memoria di quel sogno è come perderne, per sempre il suo patrimonio mnemonico.
E noi che siamo mediterranei, amanti della Magna Grecia, questo sequel, questo 2046, lo immaginiamo così allora.
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Afa.
Intercity Salerno – Reggio Calabria – Carrozza A-23
Il treno intercity 7957 partì da Salerno alle 17:46, sotto un cielo che sembrava trattenere il respiro. Un po' come la Lollo nel film Trapezio. Saro sedeva al posto 42F, lato finestrino, con lo sguardo perso tra le colline che si allungavano verso il Tirreno; in realtà il suo biglietto era il 42E, posto centrale, ma aveva lasciato a casa gli occhiali. Aveva con sé un taccuino dove annotava tutte le idee e le singolarità della giornata, ma non scriveva, da mesi non scriveva, era un giornalista freelance che scriveva saggi ed editoriali su diversi portali
Improvvisamente la porta del vagone si aprì con un sibilo. Lei entrò.
Alessandra.
Pelle ambrata, capelli neri fluenti, pelle di luna come la notte che stava tutto per adombrare.. Indossava un vestito color rame, leggerissimo e semitrasparente, che lasciava scoperte due gambe scolpite come colonne greche. Si sedette di fronte a lui, incrociando le gambe con una naturalezza che lo trafisse. Saro sentì il cuore accelerare, come se il treno avesse preso una curva troppo stretta, in realtà viaggiava in rettilineo da ore.
Lei lo guardò. Non sorrise. Ma i suoi occhi, grandi e liquidi, sembravano sapere già tutto di lui.
“Ti disturbo?” chiese Alessandra.
“No,” rispose lui, troppo in fretta. “Anzi.”
Il treno si mosse. Le luci del vagone tremolarono. Alessandra appoggiò con leggerezza il gomito sul tavolino, fissandolo come si fissa un bambino.
“Sto andando a Reggio. Ma non so se ci arriverò.”
Saro la guardò, confuso. “Come?”
“Non so se ci arriverò… nel senso che non so se voglio arrivarci. Ogni volta che salgo su questo treno, mi sembra di entrare in una storia che non ho scritto io.” Cosa fai nella vita, chiese lei.
Lui sorrise, finalmente. “Io scrivo. O almeno… scrivevo.”
“E cosa scrivevi?”
“Storie, racconti, romanzi. Ma non quelli che finiscono bene.”
Lei lo fissò ancora. “Allora forse siamo sulla stessa tratta.”
Il treno correva tra Paestum e Sapri. Il sole calava, tingendo il mare di arancio e oro. Alessandra iniziò a raccontare. Di un uomo che aveva amato, e che l’aveva lasciata per inseguire un sogno a Tokyo. Di un padre che non aveva mai capito la sua inquietudine. Di una stanza d’albergo, la 2046, dove tornava ogni anno per ricordare chi era stata.
“2046?” chiese Saro, colpito.
“Sì. Era il numero della stanza. Dicevano che chi ci entrava non voleva più uscire. Perché lì il tempo non passava. E si poteva restare tutte le notti con chi si era perso.”
Il treno rallentò a Lamezia Terme, il vagone si svuotò. Restarono solo loro. Il silenzio tra loro era denso, come se il tempo avesse smesso di scorrere.
Lei si alzò, si avvicinò al finestrino. Lui sentì quel corpo magico sfiorarlo e sentì per la prima volta quel mix irresistibile di grazia e tentazione, quel mix di profumi floreali intrecciato con gli aromi del sudore che arrivavano dalla camicetta aperta di Alessandra, la carrozza era stretta e lei dolcemente iniziò a strofinarsi con delicatezza, sfiorandolo con i suoi fianchi per aprire il finestrino. Lei lo guardò fissandolo per un attimo.
Poi sorrise.
Il treno era arrivato nella stazione di Reggio Calabria.
Ma nessuno dei due scese.
Il treno aveva superato Gioia Tauro. Fuori, il buio si era fatto liquido, e le luci rare delle stazioni sembravano galleggiare come lanterne.
Saro e Alessandra non parlavano più. Ma il silenzio tra loro era diventato un linguaggio. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni respiro era una frase non detta.
Lei si era tolta le scarpe. Le gambe, ora distese sotto il tavolino, sfioravano spesso le sue. Contatti lievi, al limite del casuale, a volte quasi da sembrare cercati. Saro sentiva il sangue pulsare nelle tempie, ma non riusciva a muoversi, era immobile come un Cheope millenario.
“Ti va di venire con me?” disse lei, improvvisamente.
“Dove?”
“Nel mio passato.”
Lui non rispose. Ma si alzò.
Alessandra lo condusse nel vagone ristorante, ormai vuoto. Si sedettero in fondo, dove la luce era più fioca e la penombra incalzava i corpi che si immergevano in essa. Ordinò due bicchieri di Nero d'Avola, il cameriere li servì senza dire una parola, come se sapesse che non doveva interrompere quel momento.
“Una volta,” disse lei, “ero innamorata di un uomo che scriveva lettere che non spediva
Il vino aveva il sapore del Sud: caldo, intenso, un po’ malinconico. Alessandra si avvicinò. Gli sfiorò la mano. Poi il polso. Poi il collo.
“Posso raccontarti una storia?” chiese.
Saro annuì.
“C’era una donna che viaggiava sempre sullo stesso treno. Ogni volta si sedeva nello stesso posto, sperando di incontrare lo stesso uomo. Ma lui non c’era mai. Allora iniziò a immaginarselo. Gli parlava, rideva, e tutte le notti stava con lui. Un giorno, lui apparve davvero. Ma lei non seppe più cosa dire.”
“E poi?”
“Poi lui le prese la mano. E lei smise di cercarlo.”
Alessandra si avvicinò ancora. I loro volti erano a pochi centimetri. Il treno sobbalzò leggermente, come se avesse approvato. Lei gli disse; questo è l'Eterno Presente. Prese la mano incerta di Saro e come una sonda senza nessuna base, iniziò con una naturalezza incredibile a fargli esplorare il suo corpo.
Mentre il treno viaggiava chissà dove, trascorsero minuti, ore, nella penombra e nel silenzio più assoluto.
Il treno correva tra Scilla e Villa San Giovanni, ma per Saro non esisteva più alcuna geografia. Solo lei.
Alessandra si era spostata accanto a lui. Non di fronte. Accanto. Come se il confine tra i loro corpi fosse ormai superfluo.
“Ti sei mai chiesto,” disse lei, “quante versioni di te esistono? Quella che sogni, quella che mostri, quella che nascondi. Io le vedo tutte.”
Saro la guardò. Il suo profumo era caldo, speziato, come un frutto maturo lasciato al sole. I suoi occhi non cercavano conferme. Cercavano gioco.
“E tu?” chiese lui, con voce incerta.
“Io sono solo quella che decido di essere adesso. Il futuro mi annoia. Il passato mi perseguita. Il presente… mi eccita.”
Si voltò verso di lui. Le sue gambe si piegarono sotto di sé, e il vestito si sollevò ancora, sembrando quasi scomparire. Non per caso. Per scelta.
Alessandra prese il bicchiere di vino rimasto dal vagone ristorante. Lo portò alle labbra, poi lo porse a lui. “Bevi. Ma non per dimenticare. Bevi per ricordare.”
Saro lo fece. Il vino era più caldo ora. O forse era lei.
“Una volta,” disse lei, “ho fatto l’amore con un uomo su un treno. Non perché lo amassi. Ma perché volevo che il treno non arrivasse mai.”
Saro la guardò, turbato. “E ora?”
“Ora voglio che tu mi desideri abbastanza da non sapere più chi sei.”
Alessandra si alzò. Lo prese per mano. Lo condusse nel piccolo compartimento vuoto in fondo al vagone. Chiuse la porta. Il rumore del treno si fece ovattato.
“Qui il tempo non entra,” disse. “Qui siamo solo io e te. E il desiderio.”
Si avvicinò. Le sue mani scivolarono sotto la camicia di lui, lente, precise. I suoi occhi non chiedevano permesso. Ordinavano.
“Non dire nulla,” sussurrò. “Le parole sono per chi ha paura.”
Saro obbedì. Il suo corpo rispose prima della mente. Le mani di lei erano come il vento caldo di agosto: non si potevano trattenere, ma si ricordavano per sempre.
Si amarono nel silenzio. Senza fretta. Senza futuro. Solo Eterno Presente. Un presente che bruciava, che consumava, che lasciava il sapore del ferro e del vino sulla pelle.
Quando riaprirono la porta, il treno era fermo. Ma nessuno salì. Nessuno scese.
Alessandra si rivestì lentamente. Poi lo guardò.
“Domani non mi cercherai. Ma ogni volta che sentirai il rumore di un treno, penserai a me. E ti chiederai se esisto davvero.”
Saro non rispose. Non poteva.
Lei gli lasciò un biglietto. Senza nome. Senza numero. Solo una frase:
“2046 non è una stanza. È un momento. E tu ci sei stato.”
Poi scese.
Il treno ripartì. Ma Saro non lo sentì.
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Altre recensioni
Di Hellring
"Nel 2046 corre un treno misterioso e si dice che chi va nel 2046, vola alla disperata ricerca dei ricordi."
"Il 2046 di Wong Kar Wai è un’opera complessa ed intricata che si deve sciogliere pian piano come la neve al sole."