Eterno, incorreggibile Woody. Due anni di attesa per un film sono un secolo per chi gli è affezionato e conosce le sue tempistiche svelte. Due anni non certo dovuti a lungaggini nelle riprese o nella scrittura. Il film era pronto da un pezzo. E alla fine è arrivato, per fortuna. E lo dico da censore di molte delle sue opere senili. È arrivato qui da noi, non in America, dove la furia puritana soffia impetuosa.
Un film che richiama un po' quello di Polanski, in un duetto di libertà e forza intellettuale che annichilisce i cani da guardia del perbenismo, che abbaiano a comando (compresi diversi attori del film stesso, che hanno dato in beneficenza il loro compenso). E quando l'opinione pubblica sbraita, il cineasta acuto risponde anche attraverso la sua arte. Allen lo fa con la leggerezza di chi plana sulle cose dall'alto, trattando argomenti dal peso notevole con una spensieratezza che fa invidia, senza avere paura di pungolare chicchessia.
Un atto di libertà, che parla proprio di opinione pubblica, successo, cinema, sesso e illazioni, verità fattuali e mediatiche. Ma lo fa attraverso un diaframma giovanile, attraverso la storia d'amore di due ventenni. Un recupero della verginità. Sono un po' gli stessi argomenti che hanno incatenato e ammutolito il regista per un'accusa “senza fondamento” del 1992. Ed è bellissimo che proprio il film censurato parli - obliquamente - proprio di quella temperie culturale e di quel mondo che hanno portato a rilanciare le accuse al vecchio donnaiolo Allen.
Lui non si difende armato. Al contrario, si apre, racconta il mondo di insidie di New York e del cinema, con spietata lucidità. C'è il regista alcolista, c'è quello insicuro e tradito dalla moglie. Oppure l'attore affamato di carne giovane. Tutti si protendono verso la giovane immacolata, ma la loro tensione erotica è solo una parte di un percorso esistenziale e risulta difficile da banalizzare. Anche perché spesso è la ragazza a insistere con loro per conoscere un pezzetto in più di quel mondo. “È un po' più complicato”, potrebbe essere la risposta del regista a chi lo accusa di essere un mezzo maniaco.
Alla fine della vicenda sembra quasi non essere "successo niente", perché nell'ordigno perfetto ogni attimo potrebbe rappresentare la vita intera e poco dopo diventare del tutto insignificante. La ricerca della verità passa attraverso parole forti e icastiche, ma allo stesso tempo fallaci. Le parole valgono fino a un certo punto. Sono nuvole di fumo senza una logica precisa. La verità non può essere un atto unilaterale, la sua ricerca non può funzionare al primo tentativo. È un approssimarsi farraginoso e pieno di contraccolpi. Pieno di storture. E poi, c'è sempre la manipolazione fatale dei media.
I bavosi del cinema vengono messi a fuoco dal punto di vista della giovane preda di periferia, l'incantevole Elle Falling. Ma i predatori sono davvero così meschini? O è la preda che gli si offre? Le dinamiche sono complicate. La curiosità ingenua (e poi maliziosa) della giovane innesca la compiacenza di questi uomini abbruttiti. Le due condizioni coesistono nell'avvicinamento al “patatrac”.
Un divertente gioco meta-cine e meta-bio per un ragazzaccio che a 84 anni continua a essere arrapato di cinema e di vita. E quel ragazzo è ancora in scena, anche se non può più essere Allen in persona.
C'è quindi uno sforzo di translatio generazionale parzialmente riuscito, perché Timothée Chalamet è un Woody ancora da raffinare. Ma va apprezzato il tentativo di dare una voce nuova e giovane al suo ego ipertrofico. Un ego giovane, che sbaglia quasi tutto, e si prende una lezione colossale dalla madre. Woody cineasta bavoso, Woody ragazzo ribelle. Tutto e il suo contrario. Purché la giostra del cinema non finisca mai, finché c'è forza per vivere c'è forza per fare cinema.
Un film memorabile anche e soprattutto per come dialoga con l'attualità del suo autore. In sé ha una vivacità di scrittura finanche eccessiva. A volte il copione è “troppo scritto” e i giovani attori non gli stanno dietro, perdendo pezzi per strada. Squisita la regia che predilige inquadrature fisse e lenti movimenti, giochi prospettici in cui la malizia delle pose e il linguaggio dei gesti emergono sempre nitidi. La pioggia non è solo fuori per le strade, è dentro, negli interni, nei cuori in tumulto di due giovani fidanzati in “gita” a New York.
Mirabile l'unità di spazio e tempo, una prova di maestria che vola leggera ma portando carichi pesanti. Leggera come il volo della studentessa giornalista tra i sogni amorosi di registi e attori disillusi. Frivola come la sua conoscenza del cinema, autoreferenziale e vanitosa. Pesante come il passo del suo fidanzato abbandonato, che è recalcitrante e ribelle ma forse per il solo gusto di esserlo, anche lui un po' superficiale nel dispensare giudizi.
Allen, dicendo ai suoi detrattori che “è un po' più complicato”, non nasconde le sue debolezze e contraddizioni. Anzi: le amplifica, ne fa un tema cardine, lasciando la sua voce a un ragazzino immaturo. E alla fine sarà proprio quel ragazzino a scegliere di rituffarsi nelle nevrosi newyorkesi, ridandosi in pasto ai leoni.
Bentornato, Woody.
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