Ci sono dischi che ti cambiano la vita. Sono pochissimi, frutto di selezione o fulmini a cielo aperto, ma quando arrivano, ti squartano come un maiale agonizzante in un ammazzatoio. Ti aprono le gambe e ti stuprano con violenza. Arrivano e stai male, ma al contempo ti piace tutta questa sofferenza e finisci per amarla. Gli ascolti di questi dischi ti vestono di lividi invisibili. Ti strappano le interiora con unghie lunghissime e nere. Ti fanno sentire tremendamente vulnerabile.
Sei vergine. Sei nudo. Sei inutile.
Forsennato. Spezzato. Molle.
Respiri a fatica con una flebo ficcata nel braccio.
Parlando di "A Promise", non parlo da fan (quale sono), ma da ipersensibile. Perchè è un disco carnale, fatto di sesso e morte, di disperazione crescente, ma anche di infantile sfrontatezza. Osa sempre dove altri si fermerebbero, si sofferma a guardarti nella cassa toracica e ti sussurra "Scopami". Vi sembrerò volgare, autodistruttivo, lezioso, tedioso, lagnoso. Beh. Non mi importa. Perché questo è amore vero.
Dieci canzoni nascoste dietro una copertina naif che ne chiude il senso: la degradazione del sesso senza sentimento, unito al massacro dell'innocenza, in un clima asettico, ma tremendamente infimo/intimo. E parte l'amplesso con l'anima.
L'inizio è già orgasmo: dallo strimpellare estenuante e meravigliosamente attraente di una ballata dolorosissima come "Sad Pony Guerrilla Girl", alla rivoluzionaria "Apistat Commander", passando per l'imprevista conclusione della sofferenza pura di "Walnut House". C'è rabbia in "Pink City", che è rumore puro, ma anche innocenza deviata nella cover di "Fast Car" di Tracy Chapman. C'è tutta una filosofia malata, un mondo seducente alla deriva, un fiume di liquido seminale gettato con violenza in un cielo nero, riempendolo di stelle morte. è "A Promise", uno di quei dischi che o lo ami, o lo odi, è vero. Ma se lo si odia, è perchè ci si rifiuta di entrare in un'emotività così alta, in un continuo saliscendi di genialità, di emozioni vividissime, di momenti al limite dell'improvvisazione.
E' scarno, ma al contempo complesso come pochi altri: è il frutto maturo dell'albero di Jamie Stewart, tra i più geniali cantautori contemporanei della nostra epoca. Per dimostrarlo, c'è un pezzo come la sanguinaria "Brooklyn Dodgers", ma soprattutto un dittico straordinario, oltre il capolavoro, trasognato e sfigurato. La prima, "Sad Redux O-Grapher", è la profetica messa nera sommessa sulla fine dell'amore (e in cui mi ci ritrovo a pieno) e, la seconda, "Ian Curtis Wishlist", il piacevole inferno a sigillare l'opera. Incede con una musica avvolgente che si distrugge di synth che ti portano in cielo e ti abbandonano lì, a fluttuare, mentre la gola di Stewart si infiamma, si srotola, si autodistrugge.
E' il miracolo della musica.
Chiudi le palpebre e, anche a disco finito, è ancora lì.
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