Mais oui! Gli Yes sono atterrati a Bruxelles per il tour promozionale di «Fly From Here», il loro ultimo (bel) lavoro. Formazione: i tre vecchiacci storici (White, Squire e Howe), il meno anziano Geoffrey Downes e il giovinetto canadese francofono Benoit David. Ottima la location dell'Ancienne Belgique, a due passi da una Grand Place che, già agghindata per le feste, è a dir poco mozzafiato.
Cosa funziona? Tutto. La line-up è affiatata, efficace, sorprendente. Francamente ero un po' preoccupato per la vetustà dell'ensemble, ma devo dire che sono rimasto veramente colpito: niente stampelle, né pannoloni né dentiere traballanti. Innanzitutto Benoit David non è Jon Anderson e giustamente non fa Anderson; ce la mette tutta, è appassionato e canta davvero bene, senza manco mezza stecca. Si riserva pure un simpatico siparietto in francese col pubblico, con Squire a ruota che raglia un «Merci Beaucoup» scusandosi poi di non sapere come si dice «grazie» in fiammingo. Steve Howe, praticamente uno scheletro vestito e con un mocio avvitato in testa, è una macchina da guerra e fa impressione vederlo spadroneggiare con le sue cinque o sei chitarre.
Geoffrey Downes mi sta simpatico, sempre sorridente e guascone, con una redingote rossa che svolazza tra un vero muro di tastiere mentre lui ammicca di continuo a un paio di biondazze in prima fila. Pure Alan White, quello che mi preoccupava di più, sembra davvero in forma: certo, ha una faccia da rincoglionito mica da ridere, ma non perde un colpo e va via liscio, risparmiandosi saggiamente eventuali assoli. Il più arzillo del lotto è senza dubbio Squire; nonostante un aspetto a dir poco grottesco (panza rigonfia, faccia che ricorda Jabba the Hut, gambe esilissime con pacco in vista, camiciazza e monili new-age), il Pesce guizza alla grande. Suona da Dio, accenna a passi di danza e ringrazia senza posa il (sorprendentemente) caloroso pubblico belga.
Detto dei Nostri, veniamo alla scaletta. Lodevole a mio avviso la scelta di lasciare nell'oblio il periodo 90125/Rabin per concentrarsi sul nuovo materiale, mentre i classici vengono pescati dai grandi successi dei Seventies, da «The Yes Album» fino a «Drama». L'opener «Yours Is Not A Disgrace» è una bomba che infiamma la sala, su tutti trionfa Howe. Lacrime vere scorrono con «And You And I», praticamente identica alla versione da studio e in cui Benoit David fa una gran figura. Tra il ripescaggio di una sorprendente da «Wonderous Stories», e un set acustico di 10 minuti in cui Howe titaneggia in solitaria, sta l'ottima suite dell'omonimo ultimo album: ispirata, epica, e suonata con grande partecipazione. Qui il ritmo è ben più accelerato che nella versione in studio, e il risultato è sicuramente più intrigante, così come nell'intensa «Life On A Film Set».
Tra i brani nuovi ottima anche la rutilante «Into The Storm»; monumentale invece e a tratti anche inquietante una «Machine Messiah» che si colloca come tra i pezzi migliori del set. Il delirio vero arriva con «Starship Trooper», dilatata fino a quasi un quarto d'ora: i cinque sembrano esaltati, Downes acchiappa la keytar, piazza assolini squillanti a raffica e si mette a fare il verso ad Howe, che quando sorride fa ancora più spavento; Squire, che si agita come un'otaria spiaggiata, fa cantare il suo basso mentre White picchia duro e non sbaglia un controtempo anche se a guardarlo sembra che stia per scoppiare a piangere. Con tutto ciò il pubblico (attempati supporter, compassati affaristi inglesi e un notevole numero di giovani), va fuori di testa. Le urla dopo l'uscita di scena dei nostri eroi sono selvagge e gutturali, ma la finta dura poco perchè gli Yes ritornano e sparano una «Roundabout» da pelle d'oca. Di nuovo Howe fa quello che gli pare, di nuovo Squire zampetta come uno struzzo obeso e di nuovo David dà un'ottima prova di se.
Questa volta lo spettacolo è finito. Mi rimane, oltre alle immense emozioni, l'ammirazione e il piacere di vedere questi fossili viventi ancora attivi, entusiasti e felici di suonare; perché è questa la sensazione che le loro (brutte) facce e la loro passione comunicano. L'impressione è che come nel 1980 l'arrivo di più freschi e nuovi elementi abbia portato una ventata d'aria pura in quella cripta maleodorante che erano gli Yes degli ultimi dieci anni; insomma tornare in studio è stata la scelta azzeccata. Nemmeno per un minuto ho rimpianto Anderson né tanto meno il troppo spesso pacchiano Rick Wakeman. Che sia stato merito della birra belga o delle gouffres al cioccolato, fatto sta che gli Yes si sono divertiti e hanno fatto divertire e stupire, ed è questo quello che conta; con più di quarant'anni di carriera sul groppone scusate se è poco.
Ultime battute. Piccola delusione: niente «Close To The Edge» e niente «Soon», io me le aspettavo ma si sa, l'età avanza, gli anziani devono andare a dormire presto e non si può fare tutto. Steve Howe per me rimane uno dei più grandi (e più brutti) chitarristi viventi. Detto di Squire e White, lode anche alle new-entry: un Downes divertente e spigliato con le sue tastiere squillanti e un David che sembra proprio a suo agio.
Chapeau à tout le monde et bonne nuit.
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