Esce nel 1992 a seguito del bistrattato "Eclipse" proprio nel momento peggiore per il guitar-hero svedese, ossia nel periodo d'oro del grunge che porrá fine all'era gloriosa dell'hard-rock anni ottanta.
Il funambolico axeman, peró, non si perde d'animo e propone ai suoi fans il reale seguito al fondamentale "Odissey" (1988) con un lavoro articolato in 14 pezzi dalle atmosfere cangianti, imbastiti su quelli che diverranno i cardini del new-classic power metal degli anni a seguire.
Produzione molto curata sebbene un tantino retró, frutto del binomio Miami (Criteria Studios)-Stoccolma (Polar) e musicisti provenienti dalla Svezia dove troviamo Svante Henrysson al basso, Bo Werner dietro ai tamburi, il talentuoso Mats Olausson ai tasti d'avorio ed il giá noto, per antecedenti famose collaborazioni, Göran Edman.
Proprio il singer si rivela novitá "groundbreaking" nel suono di Malmsteen, in quanto dotato di peculiaritá canore diametralmente opposte al precedente (ed inarrivabile) sua maestá Joe Lynn Turner.
Infatti l'ugola di Edman non graffia alla maniera del cantante americano ma si rivela assai armonica, pulita e vicinissima all'hard-rock piú propriamente neoclassico e, quindi, melodico.
"Perpetual", pezzo interamente strumentale, apre l'opera dandoci un saggio del talento del chitarrista, tra scale cariche di classicismi e keys plumbee ed apocalitticche. Un'apertura dall'ingannevole malinconia poiché la seguente "Dragonfly" é puro hard-rock nord-europeo con la formula strofa-ritornello un po' ripetitiva ma vincente, impreziosita da solos funambolici, tecnicissimi ma non dimentichi del melodic-feel che rese famosi pezzi come "Crystal Ball" o "Now Is The Time".
"Teaser" é stradaiola, spensierata (anche nel liricismo) e mette in luce le linee vocali di un Edman vivacissimo mentre uno dei picchi compositivi del platter arriva con la tetragona "How Many Miles To Babylon". Introdotta da un flauto dalle litanie medievali ci regala un bridge strepitoso tra il riffing poderoso unito al binomio voce-tastiere assai melodico e vagamente mistico. Sezioni di archi rimembranti ambientazioni tempestose duettano con il folle solismo di Yngwie per un ensemble emozionale davvero riuscito.
Nei restanti pezzi della cosidetta "prima parte" si stagliano le atmosfere nostalgiche di "C'Est La Vie", lamentosa nel cantato crepuscolare di Göran, vive su una sitar orientaleggiante seguita da un guitar-work lento e pachidermico che lascia fluire assoli al fulmicotone.
"Leviathan" (ancora strumentale) ci riporta sulle tematiche della gemella "Perpetual", ove le sinfonie di Olausson accompagnano i deliri sonici della sei corde ed uno stacchetto bluesy sul finire davvero intrigante.
Quindi si giunge alla cime compositiva dell'album, l'anthemica, melodica, incontenibile "Fire And Ice". Ancora scale iniziali da brivido, strofa sorretta da un riffing fulgido combinato alla teatralitá del cantato, ritornello assai catchy e, per l'ennesima volta, Malmsteen infiamma la battaglia sonora tra trame blues-rock e l'inconfondibile stile barocco.
Si segnalano ancora la commovente ballata "I'm My Own Enemy", docilmente acustica dal chorus raffinato e la tormentata "Final Curtain" tra muri di chitarre dalle distorsioni piú accentuate ed un singing sofferto e solitario.
In definitva un importante capitolo nella discografia del chitarrista, senz'altro il maggiormente ipnotizzato dalle influenze derivanti dalla musica classica tanto cara al vecchio Yngwie. Destinato a chi adora l'hard dei Rainbow ed ai nostalgici dello Scandinavian metal di fie anni ottanta. Gli altri, con tutta probabilitá, lo odieranno aspramente.
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