La posizione che Malmsteen assume nella copertina di questo disco, gamba destra piegata, l’altra allungata, deve essere di combattimento: con la stessa posizione in 'Trilogy' abbatteva con la sua Strato una pericolosa Idra a tre teste, in questo disco manipola, da consumato alchimista, il ghiaccio e il fuoco.
Già, perché è necessaria proprio la combinazione dei due elementi per poter cancellare il terribile 'Eclipse' di due anni prima, disco votato sfacciatamente a sonorità decisamente troppo commerciali per i canoni dello svedese. Con 'Fire & Ice' ci riesce parzialmente. La strumentale Perpetual lascia ben presagire, soprattutto per la presenza, cosa che quasi mancava in 'Eclipse', di sonorità neoclassiche. Il brano, pur non paragonabile ai celebri passati strumentali, si presenta come un’ottima opener.
Ma le successive Dragonfly e Teaser ripiombano lo svedese in quei terribili clichè hard rock che erano stati la rovina del disco precedente. Il problema è che se si vuole suonare AOR pomp non si può prescindere da melodie memorabili cosa che entrambi le canzoni non hanno. Soprattutto Teaser, scelta come singolo, è quanto di più banale il genere possa proporre, roba che gente come Dokken, Ratt o TNT usava, probabilmente come B sides.
Ma il colpo di scena è dietro l’angolo: un quartetto d’archi, accompagnato da una soave melodia di flauto apre How many miles to Babylon, un paio di minuti di pathos drammatico che sfocia in un mid tempo epico dove la voce di Goran Edman, pur essendo il singer meno bravo mai assoldato da Malmsteen, si cala perfettamente nel genere. In Cry no more un’altra piacevole sorpresa: una sorta di epic blues apre questa power ballad, intermezzata dal quartetto d’archi lanciato in una aria tipicamente barocca. Un brano atipico ma irresistibile.
In No mercy, veloce e potente, fanno capolino i blackmoriani Rainbow ed anche qui risalto al quartetto, impegnato nella parte centrale del brano alla rivisitazione di una celebre aria bachiana. Un sitar introduce C’est la vie, song dalle tinte orientali che vorrebbe fare i verso alla celebre Gates to Babylon dei Rainbow era Dio. Malmsteen anche nei dischi seguenti inserirà sempre un brano di questo tipo, introdotto dal solito sitar. Il problema è che lo svedese sta alla musica orientale un po‘ come i cavoli a merenda e quindi il risultato è già auspicabile: da skippare…
Ancora uno strumentale, Leviathan, ci ripropone un Malmsteen in netta ripresa che, pur non facendo gridare al miracolo, sembra ricordarci che il Paganini elettrico è ancora vivo. La title track sbigottisce: perfetta la fusione tra la musica barocca e le sonorità hard rock, con lungo solo Vivaldi oriented e potente seguito Hard pomp. Insomma quello che non è riuscito con Dragonfly e Teaser qui riesce alla perfezione. Ancora Rainbow e quartetto d’archi nella veloce Forever is a long time, mentre la ballad I’m my own enemy è scialba e piatta, assolutamente imparagonabile alla celebre Dreaming. Brutto Hard rock misto a funky nella successiva All I want is everything, brano decisamente da riempimento. Il breve intervallo acustico di Golden dawn introduce Final courtain, song potente e orchestrale, non un capolavoro ma ottima per la chiusura del disco.
Che dire, probabilmente, vista la stazza attuale, lo svedese non sarebbe più capace di mettersi in posizione di combattimento, però di regalarci qualche buon brano può darsi. 'Fire & Ice', lungi dall’essere un capolavoro, è il disco del parziale riscatto dopo le delusioni precedenti, il classico disco che in alcuni momenti esalta, in altri annoia. Non mi si permette di farlo ma un 3,5 è tutto meritato.
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