Il formato Cd della Matador raccoglie il secondo, New Wave Hot Dogs (Coyote/Twin Tone, 1987) ed il terzo lavoro, President Yo La Tengo (Twin Tone, 1989) dei nostri, più il singolo The Asparagous Song (Coyote, 1987).

La band di stanza ad Hoboken, New Jersey, costruita sul sodalizio matrimoniale ed artistico di Ira Kaplan e Georgia Hubley, che fa ciascuno dei due “la metà di un’unità più grande”, vede al basso Stephan Wichnewski al posto di Mike Lewis, ma su President anche Gene Holder, mentre Dave Schramm, secondo chitarrista, esce di scena per ricomparire solo episodicamente, ma non casualmente, in Fakebook (nel 1990) e in Stuff Like That There (nel 2015, in una sorta di pendolarismo paradossale). James Mc New, terzo di un paio artisticamente perfetto, non c’è ancora.

Affrancatosi dunque da Schramm, il songwriting di Kaplan, già all’esordio solido, nonchè magnifico, elabora e sviluppa, da una parte, la passione e le affinità velvettiane, dall’altra, perfeziona la propria inclinazione Folk, innata ed imprevedibile nei riscontri. Tutto ha così origine dalla chitarra di Kaplan, dai funambolismi tra Neil Young (urbano e rurale, elettrico ed acustico) e Tom Verlaine (poeta maledetto dei Television e della New Wave), ma al di qua e al di là di entrambi, e di lato, in un idioma personale, versatile e poliedrico. Le percussioni della Hubley, ispirate a Maureen Tucker, procedono incalzanti ed incisive, pur negandosi a virtuosismi futili, meritano attenzione a ogni brano. Invece, la sua voce tenue, per ora, è solo di sottofondo, relegata ai cori. Il canto baritonale di Kaplan risulta poco appariscente, riservato, ozioso, di contro alla sua chitarra, ferrea e più inflessibile rispetto al debutto, ma anche lirica.

Se New Wave Hot Dog, “La nuova ondata di caldi cani”, sottrae al Country-Rock dell’esordio proprio il Country, a vantaggio del Folk (nervoso, ma controllato) , President, da par suo, abbonda di sonicismi e dissonanze libertarie, e mostra altresì l’attitudine psichedelica degli YLT.

In NWHD possiamo incontrare:

-Did I Tell You, una intensa elegia, olezzante, canicolare, viva e sfuggente, scandita da continue ascese e discese (avete presente com’è correre in bicicletta lungo gli argini di un fiume, poniamo il Piovego, e poi scenderli in velocità, il vuoto d’aria in pancia e non sapere dove e quando il ritornello che stai ascoltando andrà a finire… beh, metteteci un pomeriggio assolato di Luglio, un po’ di spensieratezza, i vostri vent'anni ed è questo: semplicemente meravigliosa).

-Clunk , uno sguaiato rock’n’roll, tra jingle jungle e feedback, up-tempo e ipnosi ericksoniana-non direttiva;

- A Shy Dog, un pezzo vicino a “Ride the Tiger”, mirabile, veloce ed incalzante. Suona come una resa dei conti, pacifica, con un qualsiasi “Stupido cane”, sia anche interiore;

- The Story of Jazz, uno Tsunami di distorsioni concentrato in tre minuti;

-It's Alright (The Way That You Live), una cover di un “circa” inedito dei Velvet Underground, per ronzio di chitarra e canto semi-parlato.

President poi offre: l’Acid Rock di Drug Test e Barnaby, Hardly Working (innervata su di un feedback ripetitivo); le cover di The Evil That Men Do, dall’Lp di debutto, nella bellissima Craig's Version, rifatta con i suoni del deserto, e nella Pablo's Version, live, dilatata, enfiata di sonicismi e libere dissonanze, in una urticante feedback free-form freakout. C’è poi Alyda, ballata Country-Folk Psychedelica e, infine, I Threw It All Away, disciplinata e affascinante cover da Nashville di Bob Dylan.

Gli YLT, pur agli esordi, sono già un gruppo capace di coniare un proprio personale linguaggio, una propria cifra stilistica. Non c’è sincretismo, non c’è plagio, nei loro riferimenti, rimandi e divagazioni; creativi ed originali, intellettuali ed eclettici, schietti e credibili, appassionati ed autentici, capaci di novità sulla scorta della tradizione e della contemporaneità stessa, ravvivano, in ogni persona che li ami, le proprie inclinazioni migliori e, perché no, l’attitudine al lavoro. Sono un modo di stare nella musica, un “modus vivendi et operandi”, capace di scardinare i generi e disattenderli, di cambiare e rimanere fedeli a se stessi. Dell’Indie Rock hanno fatto, e, anche oggi, continuano, dopo oltre trent’anni di carriera, a fare un’arte raffinata. O si ignorano, o si amano. Profondamente. Impossibile odiarli.

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