Stranezze del Rock. Probabilmente in pochi, in Occidente, avrebbero scommesso un centesimo sul successo di questi quattro giapponesi ("yonin bayashi" significa appunto "i quattro musicisti"). Successo (e notorietà) che arrivò, sì, ma quando ormai i Nostri, sul finire dei '70, si giocavano le ultime carte di una carriera che in patria li aveva consacrati - da tempo - allo status di leggende. Dischi come "Printed Jelly" e soprattutto "Bao" (forse l'album titolare della miglior copertina di tutto il Rock nipponico) sono oggi conosciutissimi anche all'estero; dischi che i critici delle nostre parti hanno etichettato come "progressivi" ma, se progressivi sono, lo sono in un'accezione senz'altro diversa da quella più comune, più anglo-centrica; momenti d'ampio respiro, certo, ma troppo poco per azzardare un paragone col Prog sinfonico d'oltremanica; sporadici squarci di melodia vagamente "mediterranea", ma non abbastanza per pensare d'aver di fronte la "PFM del Sol Levante"; e soprattutto una chitarra, QUELLA chitarra, la chitarra di Katsutoshi Morizono, che era un ruggito primordiale, capace di potenza e ruvidità incontenibili senza mai scadere negli stereotipi dell'Hard più scontato.

No, c'è da stare molto attenti quando si usa la categoria di "Progressive" con i Bayashi, soprattutto se pescando fra la loro discografia si torna a riascoltare quello che è forse il migliore (di certo il più schietto) album live da essi prodotto. L'anno è il 1973, ma il disco viene dato alle stampe solo cinque anni dopo: mossa strategica dei discografici, decisi a capitalizzare il recente successo della band mettendo sul mercato un documento (a tutt'oggi rarissimo) che però racconta di una fase stilistica ben diversa da quella recentemente attraversata da Morizono e soci; qui di Prog, infatti, non ce n'è proprio traccia, e quanti sperassero di trovarne resterebbero certamente delusi. 

E' un album forte, deciso, diretto. Grezzo, ruvido, corrosivo, "acido" più che mai. Vibrante dal primo all'ultimo minuto. Non lontano, nei contenuti, dalle grandi opere dei maestri della Jam californiana. E affine, nello spirito, alla spontaneità dei coevi Kraut-Rockers germanici, così come alle escursioni "cosmiche" di Ufo e Hawkwind. Musica brutale, aggressiva e distorta a tratti, musica "per il corpo", più che per la mente. Musica liberatoria, figlia dell'istinto, genuinamente Rock ma con spiccata predilezione per lunghissime parentesi strumentali, quasi totalmente appannaggio della chitarra del leader (molto dilazionati gli interventi dell'organista Hidemi Sakashita). Un disco che stupisce e infiamma con la veemenza di un bootleg (perché la qualità della registrazione, lo potete immaginare, non è certo eccelsa), un disco che si rivolge al pubblico freak giapponese, ai bikers strafatti tipo quelli che si vedevano nei vecchi film della Nikkatsu (i cinefili comprenderanno), più che ad "intellettuali" insofferenti di suoni sporchi. Un disco da mettere sul piatto quando si ha voglia del Rock più verace ma non si vuole ingurgitare la solita minestra riscaldata a stelle e strisce e si è in cerca di qualcosa di più, a metà fra i Grateful Dead e la "Kosmische" ma senza attendersi eccessive finezze sul piano degli arrangiamenti. Perché qui non c'è spazio per i fronzoli, si va dritti alla sostanza, c'è l'entusiasmo di un giovane gruppo in totale empatia col pubblico e intento a tracciare sconfinati itinerari di creatività strumentale. Pochi accordi (anche uno o due, magari) sono il viatico per l'infinito, secondo la lezione del "Maestro" Jerry, da semplici canovacci armonici sortisce la magia della grande Jam, quella che non a caso amo scrivere con la "J" maiuscola.

E comunque, non scoraggiatevi temendo d'aver a che fare con lunghe tiritere di virtuosismo chitarristico, i Nostri sanno bene quando variare e soprattutto quando introdurre cambi di tonalità che danno a questi lunghi quattro pezzi la pur stralunata sembianza di canzoni logicamente pensate e concepite. Canzoni, si, perché c'è anche la voce di Morizono, pur se incerta, pur se a volte attenuata dall'impeto bestiale della musica. Testi in giapponese, naturalmente: niente ye-ye o banali imitazioni dei gruppi inglesi; qui si è orgogliosi della propria - e straordinariamente melodiosa - lingua (una lezione per tanti italiani del periodo, per esempio). "Omatsuri" ("il festival") parte in sordina alla Pink Floyd di "Ummagumma", poi si accende nella seconda parte e si scatena una tempesta di suoni (organo Hard e chitarra a farla da padroni). La seconda composizione si muove sulla stessa linea, ma c'è spazio per un intermezzo centrale più pacato; una menzione per il chilometrico titolo, "Soratobu Enban ni Otouto ga Nottayo", che letteralmente significa "il mio fratellino si è imbarcato su un disco volante" (eh si, le droghe giravano, ed anche pesanti). Si passa al lato B e si riprende con una frizzante "Nakamura-kun no Tukutta Kyoku", ovvero "la canzone del signor Nakamura": Rock'n'Roll puro e godereccio, senza tanti complimenti, come l'hanno insegnato Stones e Faces. Ma in chiusura si riprende il volo con la monumentale "Issyoku-Sokuhatsu" ("l'improvvisa esplosione del grilletto"): prima parte atonale con la chitarra a contorcersi poderosa, strofa solennemente cantata quasi in silenzio e strumenti che dilagano poi per un'inarrestabile cavalcata (al primo ascolto mi vennero in mente i Blue Oyster Cult di "Astronomy").

Salite anche voi sul primo disco volante, come ha fatto il fratellino di Morizono, e godete. 

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