Si può ancora suonare progressive metal senza proporre qualcosa che sappia di "già sentito", senza pagare il dazio alle bands più blasonate e comunemente identificate come antesignane e creatrici di questo filone? Sicuramente... anche se, spesso, all'interno di questo "genere" (ma forse sarebbe più corretto parlare di "attitudine") vi è il rischio di voler risultare forzatamente originali, di creare contaminazioni e ibridi fra generi musicali solo per suscitare stupore o, peggio, vi è il pericolo di colmare imbarazzanti vuoti creativi e compositivi con performances tecniche tanto perfette, quanto fredde ed accademiche. Se questa considerazione appare scontata, meno scontato è che una band riesca ad uscire dal vicolo cieco in cui si è infilata, a ritrovare rapidamente la sua identità e a riprendere la propria evoluzione.
Questo, in linea di massima, sembra essere il percorso che da due anni ha intrapreso questa straordinaria band che, purtroppo, sono sicuro pochi conoscono (anche perché, per il tipo di proposta musicale, è sempre stata una formazione underground).
Gli Zero Hour, americani di San Francisco, si sono messi in evidenza sin dal primo loro album ("Zero Hour" del '99, ristampato con l'aggiunta di due bonustracks nel 2003 con il titolo "Metamorphosis") per un sound molto riconoscibile, ossessivo, schizoide, caratterizzato da una sezione ritmica martellante, potentissima, sincopata e spesso doppiata dalla chitarra (dedita frequentemente ad un pulitissimo lavoro di "sweep picking") , e da un cantato teso e drammatico, assestato quasi sempre su tonalità acute, ma mai sguaiato. "The Towers Of Avarice", uscito nel 2001, riprende tutti questi connotati e mette definitivamente a fuoco le coordinate stilistiche dei nostri, se possibile esasperandole ulteriormente. Il progressive metal, già complesso di per sè, si presenta in questo disco insolitamente aggressivo, deumanizzato, angosciante ed apocalittico e, a dispetto della tecnica a volte esagerata, veramente emozionante. Di emozioni, purtroppo, ce ne sono troppo poche nel successivo "A Fragile Mind" (2005), che sconta l'abbandono del cantante, Eric Rosvold (sostituito da Fred Marshall), e una vena compositiva che sembra fare affidamento più che altro sulle prodezze tecniche dei musicisti e della loro ben collaudata ricetta musicale. Il disco non è brutto, intendiamoci, ma insolitamente piatto, e le canzoni piuttosto noiose.
Ad un anno di distanza, con questo "Specs Of Pictures Burnt Beyond" la band sembra essere rinata, forte di un songwriting tornato ad alti livelli e soprattutto dell'innesto in formazione della fenomenale ugola di Chris Salinas, uno dei cantanti più tecnici ed insieme emozionali che io abbia mai sentito, con un'estensione vocale paragonabile solo a quella di Daniel Gildenlöw dei Pain of Salvation, a suo agio tanto nelle tonalità basse come in quelle alte (anzi, altissime). L'album è tutto un alternarsi di turbinanti ritmiche spezzate, spesso eseguite all'unisono da chitarra, basso e batteria (ormai trademark degli Zero Hour), di breaks rarefatti, di arpeggi di chitarra eterei e sognanti e di vocals che cambiano repentinamente come se fossero sbalzi d'umore. Quello che sorprende è il fatto che, nonostante la musica proposta non sia affatto facile, le atmosfere create sono assolutamente coinvolgenti, anche se la concentrazione durante l'ascolto è d'obbligo per non perdersi nell'intricatissimo rifferama prodotto dalla sette corde di Jasun Tipton e dalle evoluzioni vocali di Salinas. L'unico neo del lavoro (anche se per gli amanti della tecnica ciò non è necessariamente un male) è, in qualche caso, l'auto-indulgenza che i ragazzi hanno ancora relativamente alle loro doti tecniche, talvolta ostentate a discapito dell'economia complessiva dei brani, ma questo atto veniale può in linea di massima essere perdonato.
Che dire? Sperando che questo gruppo raggiunga la notorietà che merita, consiglio agli amanti della musica "impegnativa" di dargli un ascolto, magari partendo proprio da questo album.
Carico i commenti... con calma