Strano esordio questo dei nostrani Zeroìn, dal titolo evocativo "The Death Of A Man Called Icarus". Dico strano dal mio modesto punto di vista, dal quale non posso che catalogare suddetto disco tra le mezze delusioni. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, la stampa un po' più specializzata e diversi siti ne avevano fatto gran pubblicità, avvicinando la band a mostri sacri quali Nine Inch Nails o Tool. Mosso da tanti lusinghieri commenti e soprattutto incuriosito dai termini di paragone mi sono precipitato a ordinare il disco non appena è stato reperibile, ma dopo variegati ascolti in diverse situazioni (macchina, stereo in casa, cuffie) il mio interesse è andato piano piano trasformandosi nella sensazione che qualcosa effettivamente non funziona come dovrebbe. Situazioni come queste, in cui di un disco di tredici tracce pluriosannate riesci quantomeno a giudicarne sufficienti sette (a essere larghi), ti fanno riflettere. Sono io che ormai sono così lontano dagli stilemi filo-Tool e filo-NIN da non riuscire a riconoscere le qualità di questo gruppo, o effettivamente mi trovo tra le mani un prodotto così composito da non riuscirne a trovare il filo interpretativo? Effettivamente ascoltando il disco ne percepisco certo l'estrema accuratezza dei suoni, assieme alle indubbie doti tecniche dei musicisti (tra cui soprattutto il cantante), ma ciò non toglie che mi sento perso in un intricato labirinto sonoro nel quale mi è molto difficile districarmi.
Le tracce interpretative, i rimandi ai menzionati gruppi celebri, effettivamente ci sono: le linee vocali di Manuel Ciccarelli talvolta si avvicinano molto a un certo stile interpretativo usato da Reznor (per lo meno dall'ultimo Reznor). Una voce graffiante, a tratti supplichevole, altre volte più potente, capace comunque di emozionare in certi momenti, unita a un uso massiccio dell'elettronica e di basi industrial sono gli elementi più vicini ai NIN. D'altra parte abbiamo pure partiture chitarristiche a tratti molto complesse e vorticose, labirintiche e razionalmente caotiche, marchio di fabbrica dei Tool. Se a tutto aggiungiamo una tinta dark nei testi e nelle partiture tastieristiche abbiamo ricostruito abbastanza fedelmente il ruolo delle influenze musicali degli Zeroìn all'interno del disco.
Eppure delle tracce sopra la sufficienza poche sono quelle più incisive.
La pulsante "Introspectshow" marca subito il territorio battuto dagli emiliani: i Tool si fanno qui abbastanza riconoscibili, la voce "à la Trent" fa subito la sua comparsa, il mood generale è abbastanza plumbeo e rabbioso.
"Allure" è profondamente diversa, più emotiva e placida, con un cantato rassegnato che ben si adagia sugli iniziali accordi soft di chitarra. La versatilità non manca certo a questi ragazzi, eppure la traccia scorre via lasciando poco o nulla.
"It Concerns You" richiama neanche troppo nascostamente le linee di chitarra dei Nine Inch Nails. Dall'incedere marziale, basata su un cantato corrosivo nel quale più linee vocali si intrecciano con diversi stili, la traccia è forse il primo picco del disco, rabbiosa e adrenalinica quanto basta per distinguersi dalla piattezza.
"2cerebrate" parte lentamente, animata da leggeri arpeggi che crescono alla lunga, per poi esplodere in un fragoroso climax melodico di chiara matrice industrial, con una struttura molto simile a quello che è il secondo miglior pezzo del disco, "Uncatchable". Di gran lunga la traccia più intima, apprezzabile sotto ogni punto di vista e dai tratti più malinconici e freddi, questo decimo pezzo rappresenta forse quella che è la maggiore capacità di questi Zeroìn, quella di saper emozionare quando abbandonano la confusione delle loro idee e dei loro riferimenti per seguire un plot ben delineato.
Sulla base di questo ragionamento mi sento di individuare un altro buon pezzo, la title track (in realtà pure "Newropathy" non sarebbe male, peccato per il suo ritornello che sa un po' troppo di già sentito, addirittura nello stesso disco). L'ultima canzone che da anche il titolo all'album è una nebbiosa traccia strumentale, un vento desertico che alza la sabbia e la fa vorticare creando fitte cortine in mezzo alle quali ci si sente smarriti e soli. L'impatto con questo pezzo è veramente molto buono, emotivo e ammaliante quanto basta per essere eletto a miglior brano dell'album.
Non mi sento di dare la completa insufficienza a questi ragazzi, se non altro perché in Italia esperimenti così arditi non se ne trovano. Tanto di cappello alla Subsound, casa discografica che dopo gli Aquefrigide dimostra di vederci davvero lontano in materia musicale. Un sei di incoraggiamento invece al gruppo, il cui lavoro, minato forse troppo dalla quantità di idee messe in gioco, risulta talvolta confuso e sincopato, molto spesso privo di filo conduttore. Le potenzialità comunque ci sono tutte, li aspetto al prossimo disco.
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