Italians do it better: part 3

Prima di stabilire che Tom Araya fosse il loro Elvis, Mike Patton il gran capo dai finanziamenti pronti e dalla collaborazione facile e John Zorn il fan entusiasta d'ultimo pelo, gli Zu erano tre sbarbati qualsiasi. Sembra di parlare del Pleistocene, o sbaglio? 1998, Roma. Ben poco a che vedere con il gruppo che ora, sulla pagina MySpace, esibisce una lista di concerti lunga quanto un pranzo di Natale. Non esisteva nemmeno MySpace, dodici anni fa. Eppure loro erano sempre loro. O quasi. Luca Mai al sax baritono, Massimo Pupillo al basso, Jacopo Battaglia alla batteria. Viene quasi da sorridere, a dirlo adesso, con un "Carboniferous" alle spalle e una discografia già foltissima, ma a decontestualizzare si perde solo il filo del discorso: l'unica entrata, all'epoca, era rappresentata dalla composizione di musiche per teatro. Nervosismo scenico, calembours da sipario. Quale migliore occasione per gonfiare i muscoli al proprio jazzcore embrionale, così diverso dalla scuola americana ma, al contempo, così vitale? Il ghigno sul fondo è quello di Rosario, un trombettista siciliano che sarebbe divenuto davvero famoso, anni dopo. Imbastendo altri tipi di scenette, come quella patetica e stantia del suonoglobal, o della banda di paese da mandare in televisione, controparte siempre contra del missino Morselli. Ma permettendosi di svelare anche il suo grande talento, con la moneta sonante sicura in tasca, in progetti più incerti e dissestati dal punto di vista commerciale. Proprio come questo, in fondo. Lo conoscete tutti, viene chiamato Roy. Paci.

Per sputare fuoco sul palco serve il vino nelle vene. "Bromio" nasce da qui: uno pseudonimo euripideo rivolto a Dioniso diventa il diktat di un esordio clamoroso, come di chi si assume interamente, nella sua immaturità, ogni responsabilità di un pionierismo sfrenato. I quattro, strumenti alla mano, non creano nulla. Niente, perlomeno, che non fosse già stato testato oltreoceano. Non vi è solo un tipo di riferimento, citato in lungo ed in largo in ogni recensione, ma anche una forma libera e scomposta nell'uso dei fiati che pesca indietro nel tempo. In Italia, tuttavia, è un fulmine a ciel sereno. Se ne ha ben donde, vista la precisione e la compattezza di un disco compresso in strutture dalla breve durata, all'interno delle quali Mai, Pupillo, Battaglia e Paci furoreggiano, dipingendo con mano estrosa un affresco dove l'inferno è lo scenario perfetto per impasti solidi fluttuanti tra free jazz, ripartenze hardcore e gusto pompier per la melodia, strapazzato da acuminati fraseggi di tromba.

Dimenticate qualsiasi velleità metallica, specialmente alla luce di un "Carboniferous" che, con una svolta brutale ed inaspettata, ha assestato con violenza importanti scossoni all'immagine complessiva degli Zu di un tempo. "Bromio" non è un lavoro feroce o, meglio, non ha lo strapotere d'impatto dell'ultimo capolavoro di casa Ipecac. Per lunghi tratti manca anche la luciferina consapevolezza di "Igneo", la versatilità di maneggio suoni e di dosaggio fisico a lungo giostrato nei vari split. Laddove le evoluzioni recenti proiettano la composizione del trio romano sull'asse dello spericolato drum kit di Battaglia, qui vi è guerra di trincea attorno alle linee di basso, veri e propri solchi di profondità inattesa che si rifrangono sul rullante e vengono scheggiati, con velleità di conquista, dall'insieme di sax e tromba, in continuo e disordinato assalto verso il nulla. "Detonatore" è una zaffata sulfurea che parte e si ferma, parte e si ferma e, solo allora, comincia a sprofondare in un turbine circense dove i clown hanno le maschere di John Gacy jr. "Xenitis" è il brano perfetto, uno spagnoleggiare divertito che viene lancinato da un miracoloso Pupillo. "Asmodeo" attacca con il languore tragico di una Medea nella quale, tuttavia, esplodono scomposti focolari molto vicini a quelli che saranno i respiri più viscerali e sentiti dei clangori noise di Moonchild, la (per ora) quadrilogia di monsieur Patton e mastro Zorn. 

Il sentire teatrale, il gusto per lo stacco, il caricare d'accenti esagerati, grotteschi, grandguignoleschi e a volte sfarzosi ("Testa Di Cane") le proprie canzoni si possono sentire qui, e da nessun altra parte. Zu terribilmente seri, ma nel contempo divertiti ed in una buona misura compiaciuti, che esplodono nell'avanzare caracollante di "Zu Circus" - l'urlo prima della mischia, l'avvertimento che anticipa la trasformazione: poi il sipario, gli applausi -, nella collisione di "Villa Belmonte" o nell'impareggiabile muro di suono che permea "Erotomane", dividendosi in seguito in riccioli bebop combusti ed in perenne decadimento. È, per molti versi, il cenno imperioso dell'araba fenice che muore, dando spettacolo e risorgendo con nuovi colori dalle proprie ceneri.

Tutto ciò che di fondamentale è esistito, negli anni a venire, parte da qua. Indispensabile.

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