Cibernetici uomini-scimmia del pleistocene, usciti ammaccati ma vivi da un disco volante schiantatosi sul tavoliere olandese, giungono nel '97 al loro secondo full length: l'ultimo prima della svolta strumentale che segnerà i successivi capolavori.

Ingegneri aerospaziali armati di clava, scolpiscono giri di basso e chitarra imbevuti di groove fino al limite della saturazione, fondono ritmiche stoner serratissime e incalzanti ("Short Sharp Left") e le fanno girare in loop, come messaggi di errore in un computer infetto ("Powertruth"). Vi innestano arpeggi di sintetizzatori, delay, echi e riverberi, campionamenti da avarie spaziali, sfrigolare di circuiti, chiacchiericcio di CPU, fugaci apparizioni di organi hammond e una voce roca e ruvida, che urla, strepita e si dimena.

Ambasciatori di un'orda barbarica proveniente dall'iperspazio, non ancora evolutasi a puntino, mancano il capolavoro perché, paradossalmente, ancora troppo ancorati alle impalcature di una, seppur vaga, "forma canzone", ancora troppo zavorrati da eccessi heavy che comprimono e ispessiscono il sound, finendo, però, per mortificarne le componenti più fantascientifiche e psichedeliche ("Big Bore").

Trogloditi col vizietto dei viaggi interstellari, suonano una musica che pare essere solo loro, fatta di distorsioni vigorose e ritmiche della densità molecolare del piombo, su cui si accendono all'impazzata migliaia di luci, spie, led e disperati segnali d'allarme di astronavi con istinti suicidi.

Musica in cui il sanguigno clangore metallico si sposa con l'asettico ciribiribì: dura e primitiva, ma capace di ispirare visioni artificiali e futuristiche, in cui atmosfere apocalittiche, talora allucinate, si alternano a insperate aperture cosmiche, placide divagazioni visionarie ("Zero 21", "Vein 66"). Musica di un altro pianeta. Musica di giganti. Musica di gente che pesta i piedi per terra, ma con le dita sfiora le stelle.

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