Nella vita bisogna avere delle certezze. Per l’ambiguo protagonista di questo marcio cult movie, diretto da Abel Ferrara nel 1992, l’unica certezza è che nei play-off della Major League Baseball è impensabile che i Mets, in svantaggio 0-3 in una serie di 7 partite, possano rimontare.

La vita di questo tenente della polizia di New York è talmente in bilico, che il progressivo sgretolamento di quella certezza iniziale lo fa crollare. Non dobbiamo immaginarci un vaso che si frantuma al contatto con il duro terreno. No, sarebbe troppo facile: è un lento affogare, pesante e inesorabile; un annaspare nelle sabbie mobili, come se una mano invisibile gli prendesse la caviglia per tirarlo giù con una morsa sempre più forte. Cerca la redenzione, disperato, quando ormai sa di essere con le spalle al muro.

Quella del protagonista è un’esistenza fatta di apparente durezza. Una durezza gratuita ed ostentata nelle movenze, nel linguaggio, nel tono della voce, nei lineamenti del viso imperturbabile, magistralmente fotografati dall’utilizzo dei primi piani. Una violenza brutale volta a mascherare un’angoscia che non riesce a fare uscire.

E così il nostro Cattivo Tenente si aggira famelico, una iena con la bava alla bocca, e spiritato per i luoghi più miserabili della città alla ricerca di paura e tormenti altrui per lenire le sue sofferenze.

Le prime sequenze si svolgono all’aperto, alla luce del sole. Non ce ne rendiamo quasi conto, ma progressivamente la luce sparisce. L’autodistruzione di un uomo la riviviamo in quattro scene di una potenza quasi indicibile.

La prima lo vede impegnato con una prostituta e la colonna portante è rappresentata da una dolce canzone romantica in sottofondo, mentre il protagonista, completamente sbronzo e disperato, fa uscire i primi rantoli di NERO. È una danza disperata, travolgente, sbilenca, con lui completamente nudo e con il pene pendulo, che cerca di trovare sollievo nella leggerezza di una melodia: ma la sua pesantezza d’animo è troppo forte.

Nelle altre scene, quello che ci colpisce è invece la totale mancanza di una colonna sonora. I movimenti di cinepresa sono millimetrici, il sonoro di altissimo livello ci fa sentire la sua disperazione nei singoli respiri, negli impercettibili movimenti, nel suono di come si prepara la dose e se la spara in vena, di come ansima, oppure mentre si masturba in strada come un cane rognoso, urlando la sua pazzia ripetendo ossessivamente la stessa frase.

Lo spartiacque del film è rappresentato dallo stupro di due adolescenti nei confronti di una suora. La violenza carnale avviene sull'altare di una chiesa e la Sorella viene oltreggiata perfino con un crocifisso. Il perdono della suora nei confronti dei suoi aggressori, pur avendoli riconosciuti, è totalmente inconcepibile e destabilizzante per il protagonista. Ed è qui che si insinua nella sua mente malata la necessità di redenzione e di punirsi e purificarsi.

Deve metabolizzare questa convinzione, ed infatti è un cambiamento impercettibile, nel quale, assieme alla disperazione, si intravede un barlume di umanità. L’incontro con la suora stuprata gli fa capire definitivamente quale sia la via da percorrere e, con grandissima difficoltà, tormento e contraddizioni, ci prova.

L’opera volge verso il termine e si chiude in modo secco e perentorio nell’unico modo possibile. Fanno da cornice a questi ultimi minuti la violenza e i rantolii del protagonista, destinati a rimanere impressi nella mente dello spettatore. Rantolii atroci, come se cercasse di vomitare fuori tutto il NERO che si era appropriato della sua mente.

Ho ripensato alla scena finale, sempre senza colonna sonora, del recentissimo “La Zona di Interesse” nella quale il protagonista, (il capo del campo di concentramento di Auschwitz), si ferma per vomitare e credo che sia un omaggio a questo film.

Un cult movie iconico per un’opera disturbante ma necessaria, che in 100 minuti scarsi, riesce a colpire lo spettatore in un modo così forte e unico che non credo serva aggiungere molto altro.

Non posso chiudere non sottolineando che l’opera è stata scritta dal regista e da Zoë Lund che partecipa ad una delle scene più iconiche e realistiche del film interpretando sé stessa. In quei 5 minuti lei prepara al tenente una dose, che si iniettano insieme, e mentre lo fanno c’è il baratro, c’è un abisso infernale ma c’è anche redenzione e speranza. La commistione di questi elementi è frutto del lavoro grandioso della Lund e del regista che crea una sceneggiatura formidabile per un film reso immortale dalla regia di Ferrara e dall'interpretazione magistrale di Keitel.

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Altre recensioni

Di  LRS

 I suoi mugolii di dolore, senso di colpa, rabbia impotente e disperata nella spirale stupefacente lasciano dei graffi interiori.

 Ferrara offre, con una regia asciutta ed efficace, un quadretto nientemale sulle nevrosi metropolitane di un uomo potente e solo.