Eccomi ad affrontare una recensione degli immortali AC/DC. Molta gente si chiederà come mai questo gruppo continui ad aver successo nonostante pubblichi dischi sempre poco differenti uno dall'altro? Me lo sono chiesto anch'io e forse l'unica risposta sensata è che vengono glorificati di essere una band senza fronzoli, 4/4 fisso di batteria, gli effetti per fratelli Young non esistono e tanto tanto hard rock.
Ma ora veniamo all'album di cui parlerò : "Ballbreaker". Questo lavoro arriva alla distanza di ben 5 anni dal precedente “The Razors Edge”, e presenta una sostanziale differenza. Phil Rudd ritorna dietro le pelli a "picchiare" dopo 12 anni circa d’assenza. Per il resto niente cambia, i testi vengono scritti dai fratelli Young relegando Brian Johnson ancora una volta al solo ruolo di singer.
Arrivo al punto subito senza bisogno di tentennare : questo è un album granitico, duro, in puro stile AC/DC tanto per cambiare.
Non esiste un pezzo che faccia storcere il naso in questo disco.
Si aprono le danze con "Hard As A Rock", il testo è tutto un programma (per chi non avesse voglia di leggere basterebbe vedere il video per capire il tema), ma la canzone diventa un inno, forse non all’altezza di "Thunderstruck", ma talmente efficace da essere presente con costanza nelle setlist dei concerti.
"The Furor", "Hail Caesar", "Whiskey On The Rocks" e "Caught With Your Pants Down" sono canzoni toste adatte per spaccare le p...e ai vicini che si lamentano del volume.
In "Boogie Man" e in "Honey Roll" riemergono le radici blues che avevano contrassegnato alcuni pezzi dell’era Scott (vedi "Night Prowler").
Indimenticabile "Burnin’ Alive" caratterizzata da uno dei primi testi AC/DC avente messaggio "impegnato".
Il disco termina con la title track 4:30 di riff monòtono, e non ci poteva essere scelta più azzeccata per il nome di questa traccia e dello stesso album.
Evidentemente il viaggio per l’inferno non si è ancora concluso
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