Che Adam McKay abbia i coglioni è un fatto indubitabile. E che Vice sia un film importante e su cui non si discute, pure. Le domande, semmai, sono altre. E tutte tendono inesorabilmente verso una verità che lo stesso regista segnala in apertura: la preziosa e accurata ricostruzione del percorso di nefandezze di Dick Cheney (e degli Stati Uniti con lui) servirà a ben poco, non sposterà di una virgola le coscienze, perché non avrà nemmeno la possibilità di incidere nelle teste della maggioranza che con la sua vacuità di pensiero e scarsa coscienza politica permette a simili politici di fare tutto quello che si vede bene nel film. Anche perché Vice si presenta con scritto in fronte “liberal” (come viene detto in una scena “meta” dopo i titoli di coda) e non sfiorerà nemmeno la pancia dell'America profonda. I risultati di botteghino Usa ne sono la limpida conferma.

L'opera di McKay contiene in sé la sua stessa nemesi, che è nemesi della democrazia stessa. Il popolo sballato da benessere e svago estremo non è in grado di esercitare nemmeno lontanamente uno spirito critico. O forse sì, un pochino, ma quando ormai i danni sono fatti. Detto in altro modo: le maglie del potere non sono abbastanza stringenti per fermare il politico scellerato prima che compia le sue scelleratezze. Ci si accorge solo dopo che la guerra in Iraq è stata assurda, quando ormai è tardi. Allo stesso modo, poco conta che Cheney e Bush vengano massacrati con una forza argomentativa implacabile. Ormai il danno è fatto, i buoi sono scappati, chiudere il recinto è una magra, magrissima consolazione di pochi “liberal”. I figli di quelle nefandezze invece sono floridi, reali, tangibili. Si chiamano Isis, si chiamano coi nomi dei migliaia di morti in guerra, si chiamano – se vogliamo – Donald Trump.

E per giunta, nessuno potrà mai contestare nulla (o quasi) perché scelte e azioni sono state fatte accuratamente, in modo finemente diabolico, con il costante supporto di avvocati brillanti, che hanno individuato volta per volta i vuoti normativi della legge, permettendo al lombricone Cheney di insinuarsi e fare il suo gioco liberamente, senza catene istituzionali.

McKay, in modo identico ma opposto al suo protagonista, non si sogna nemmeno lontanamente di fare ciò che non gli è concesso con la materia narrativa. Lui traccia puntini su un foglio di carta, li marca con un pennarello indelebile. Ma non si permette di vergare le linee che li congiungono, quello sta a noi farlo, se vogliamo. Le connessioni logiche sono però talmente lineari e facili che nessuno, dotato di cervello, potrebbe mai pensare di non seguirle. E, come rimarcato, si tratta di fatti accertati, oggettivi, indubitabili, che il regista ha semplicemente estratto dalle fonti e messo in ordine cronologico, aggiungendo solo dei connettivi drammatici che non spostano la sostanza dei fatti.

I fatti sono questi, traete voi le conclusioni. Questo dice McKay, ben sapendo che comunque molti troveranno qualcosa da ridire, rifiuteranno il film perché smaccatamente “liberal”. Insomma, c'è un senso amaro di sconfitta a priori. O meglio, la sensazione è quella di una risata grassa con la disperazione nel cuore, perché gli orrori politici sono indubitabili ma non potremo mai essere risarciti.

Molto più di un film su Dick Cheney, suona un po' come la campana a morto per un'America che di fatto è doppiamente morta, morta e resuscitata in forma ancora più spaventosa. La connessione fortissima con l'attualità trumpiana è non detta, silenziosamente suggerita, anzi detta a mezza bocca in quella fondamentale scena “meta” dopo i titoli di coda. Trump è solo un'altra incarnazione della stessa America (e quindi dello stesso mondo) ignorante, cafona, spietata, gelida, interessata, avida. E non è un caso che lo spettatore che critica il film (sempre nella famosa scena) riveli il suo voto a Donald e poi prenda a cazzotti il “liberal” a fianco, che invece ha apprezzato la pellicola. Finisce tutto in rissa, e poi si riparte esattamente come prima.

Sono tanti gli episodi, i legami, le connessioni che vengono spiegate. Anche lo spettatore informato troverà pane per i suoi denti. Parimenti gustosa è la messa in scena, che punta forte sull'ironia, sulla caricatura severa, la risata amarissima. Cheney è un lombricone mostruoso, impersonato magnificamente dal grande Christian Bale. È una faccia orrenda, un uomo senza qualità, che inspiegabilmente è arrivato in cima alla piramide. In questo è perfetta immagine dello spirito del tempo, anche nel 2019, anche in Italia.

La narrazione serrata dei fatti politici viene alternata a giochi metanarrativi, scene surreali, situazioni al limite del comico. Si vuole prendere per il culo il protagonista, mostrarne l'abissale pochezza, e al contempo dimostrare la propria imparzialità narrativa e seguire un dettato filmico quasi didascalico (con grosse scritte a schermo, schemini e montaggio simbolico a volte un po' stucchevole). Il tutto giocando persino con la voce narrante, che è a sua volta un personaggio intrinseco alle vicende.

Un compito non propriamente semplice far quadrare tutto. E in effetti certi orpelli potevano essere evitati: pur non danneggiando il film, lo zavorrano un poco. Tanti giochi e sovrastrutture forse tolgono un po' di minutaggio che poteva essere utilizzato per spiegare meglio alcuni passaggi un po' ellittici. Il risultato è un ibrido che, come detto, difficilmente farà cambiare idea a qualcuno. Ma sicuramente farà riflettere ulteriormente i pochi, su chi siamo e su dove stiamo andando.

Carico i commenti... con calma