E fu così che il milanese di Domodossola, stanco ormai del fantasma di Vincenzo, dell'ombra pesante del Duomo e di vivere in bilico costante fra demonio e santità, acquistò un biglietto aereo e si imbarcò sul primo volo per l'America - destinazione Los Angeles. Non era un viaggio di lavoro, tutt'altro. Ma leggenda vuole che in un locale di nome "Baked Potato" abbia fatto conoscenza con alcuni signori di nome Alex Acuna, Abe Laboriel, Dean Parks e Mitch Holder (musicisti tutt'altro che anonimi, ma allora sconosciuti al Nostro) e li abbia coinvolti nella realizzazione della sua terza fatica discografica - 1981, appena due anni dopo un esordio di quelli che lasciano il segno. Già, "La Grande Grotta", proprio lui. Un album su cui ho sentito dire di tutto, e forse anche di più: "è il suo peggiore" - "no, è solo più orecchiabile" - "è un album fatto per vendere, è un prodotto puramente commerciale" - "è l'inizio del declino"... Mah. Ne ho sentite tante. Spero che altri abbiano voglia ora di sentire la mia.

Quello che si ascolta in questo album - ed è forse la cosa più importante, la prima da dire - è un interprete che non ha più limiti, un cantante in possesso di una padronanza stratosferica dei suoi mezzi tecnici. Ormai alla sua voce poteva adeguarsi qualsiasi cosa, tanto lui l'avrebbe resa personale e inconfondibile. Voce-strumento, più che mai: l'arte canora si era svelata ad Alberto in ogni suo segreto: restava solo da modulare, restava solo da scegliere quando esagerare e quando adottare invece un registro più modesto, quando sfruttare a pieno il potenziale e quando optare per la via della semplicità, senza mai inciampare in una sbavatura che fosse una. Raramente in Italia si è mai sentito un artista tanto consapevole di sé quanto il Fortis dei primi anni '80. "La Grande Grotta" ha il pregio di fotografarlo in questo preciso momento, mentre la sua poetica si arricchiva di tematiche e suggestioni nuove - e l'ironia pungente e spietata, quella davvero non mancava mai, impregnava di sé alcuni testi fra i più belli che avesse mai scritto. 

Lontano il dualismo città/stato dell'anima Roma/Milano, lontane le angosce e la tensione fittissima dei giorni passati, è tempo di lasciar spazio a "Nuovi Giorni" da spendere tra stelle e sabbia del deserto, con volontà infinita e rinnovata gioia di vivere: "la sabbia si dirada e scorre il fiume - brillante, in armonia con la città". Salire senza lasciarsi fermare dalla pioggia: la penna di Alberto disegna cieli aperti di ristoro e speranza, e da forma a uno straordinario crescendo gospel per piano e organo, che culmina in un Assolo di chitarra davvero meritevole della maiuscola. "La Grande Grotta" del titolo è un auspicato approdo di serenità per gli amanti protagonisti, il termine prefissato di un percorso che in forma di metafora si fa navigazione, magari verso il sole che nasce. Ed è appunto l'Oriente uno dei fili conduttori del disco, tanto che non è difficile scorgere un collegamento netto fra "Cina" da una parte e "Riso" dall'altra (e non soltanto per la naturale associazione dei due concetti); la Cina tanto spessa demonizzata dalla propaganda occidentale, il quartier generale del "pericolo giallo" sempre dietro l'angolo, è già un regno di futura prosperità di cui - tra simbolismo e concretezza - si immagina il futuro predominio (1981: se non è preveggenza questa...): "il drago abbaierà, e felice regnerà la musica che fa din din din". La "vecchia Europa del valzer", indistintamente accomunata in un "unico Paese", sarà parte del passato, e solo l'America resisterà, anche se per poco, in questo cambio drastico di prospettive ("io son d'accordo di cambiare un po'..."): "da domani tutto il mondo riso mangerà, e la bicicletta sulla strada regnerà". Una Cina molto romantica e in parte stereotipata, non c'è che dire, ma è sull'Occidente e sui suoi miti che viene scagliato il ridicolo - e il JFK spernacchiato e preso a schiaffi in "Marilyn" ne rimane quasi l'ultimo totem ("lui si, che era un grande capo...", ma la presa in giro è così evidente che non risparmia nemmeno un certo "Ronnie-Ro" - e chi volete che fosse, costui, visto che si parla di presidenti USA e siamo nell'81...?).

Ma tutti ricorderanno questo disco - e giustamente, aggiungo - per due capolavori: "Settembre" e "La Nenia del Salvador". Un soldato che parte e "lunghi capelli" che non rivedrà più, e una misteriosa storia di magia gitana in una Spagna indefinita nello spazio e nel tempo. In "Settembre", un coro e un battimani ritmato a rendere incancellabile una melodia che già lo sarebbe stata per via di quella chitarra finale, ne "La Nenia" il basso di Abe Laboriel" (come dimenticarlo su "New Frontier" di Donald Fagen?) a comporre irresistibili legati, cornice perfetta a dolenti vocalizzi di nostalgia - e il piano elettrico di Gary Mielke a fare il resto.

Non un capolavoro assoluto, ma un disco molto più bello e complesso di quanto si dica - tutt'altro che "disimpegnato", come spesso si dice pensando ai due precedenti...

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