Ho letto recentemente, sentenziato da un anonimo commentatore in qualche interminabile disputa "debaseriana", che è assurdo che una canzone, un disco piacciano o siano da considerarsi di valore solo per la storia, felice o più spesso di tragica tristezza e disperazione, che si cela alla loro tribolata origine. Ma, aggiungo per scrupolo, che è, anzi dovrebbe essere la materia nuda e cruda, la sola opera d'arte a parlare da sé, a sprigionare le emozioni che hanno ispirato il suo Autore a concepirla e forgiarla dal Nulla; e inoltre in questo "processo" di auto-rivelazione è anche auspicabile, direi pure essenziale, che trovi il suo spazio il sentimento del fruitore, noi umili ascoltatori in questo caso, che ci mettiamo del nostro, le nostre piccole anche insignificanti esperienze, sensazioni e talvolta benefiche "ignoranze" da non-critici di professione nell'esplorarne i significati più profondi.

E finalmente giungo a parlare di Alejandro Escovedo, cantautore americano a molti sconosciuto, le cui vicende personali sono state da me apprese inevitabilmente prima dell' ascolto della sua opera, che, triste ma vero, sarebbe ancor più oscura e dimenticata senza le recenti disgrazie del nostro. Escovedo, ormai di mezz'età, nel 2003 è collassato durante un tour a causa di quella nefasta infezione che va sotto il nome di Epatite C; ebbene la fama che in pressappoco venticinque anni di carriera gli era stata tributata non era evidentemente tale da coprire le spese mediche per salvargli la vita, bene che in America ha un preciso valore in dollari.

E' superfluo notare che a dargli una mano decisiva non sia stato il governatore del suo Stato di nascita (Texas…!) ma una considerevole cerchia di amici musicisti che da anni conoscevano e ammiravano il suo valore: personaggi del calibro dei Calexico, dei Cowboy Junkies, di Vic Chesnutt, Howe Gelb e soprattutto il grande John Cale che nel 2004 hanno dato alle stampe uno strabiliante album tributo alle canzoni dello sfortunato cantautore d'oltreoceano e sono riusciti nell' impresa di salvargli la vita. E lui, questo menestrello dalla corporatura piuttosto esile e dai puliti lineamenti del volto che hanno un po' dell'Inca sudamericano, un po' dell' indiano d'America delle origini, è rinato, eccome se è rinato. Perché quest'album americano fino al midollo trasuda in ogni passaggio un'intensa "voglia di vivere" una Vita che, lungi dall'essere esaltata con ingenuo fervore, è colta nella sua epica drammaticità con quel sentimento tutto americano di voler affrontarne gioie e dolori senza remore, con orgoglio e passione. E miglior supremo supervisore di tale rinascita non poteva che essere John Cale, produttore, arrangiatore, scopritore e genio nel valorizzare i più grandi del secolo passato (Nick Drake e Patti Smith per dirne due) che ha saputo dosare l'apporto di fior fior di musicisti nell'accompagnare le canzoni di Escovedo; il cui stile non può essere ridotto ad un solo denominatore ma che riesce ad esprimersi con sfuriate d'eterno rock' n' roll (memore del suo passato "cow-punk" ), il boogie sfrenato di "Break This Time" con un fantastico intermezzo d' archi o "Sacramento & Polk", un quasi-grunge degno del miglior Neil Young, e con egual forza attraverso più meditate cadenze folk e pop, come nella struggente title-track a tempo di marcia, o la commovente ballata d'amore con tanto di fisarmonica, "The Ladder". E' solo il tempo del suono sinistro e misterioso delle tastiere che dà inizio all'oscura e avvincente "Arizona" per sentirla, nuda e cruda… la…

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