What's so civil 'bout war anyway? si chiedeva Axl Rose al termine dell'iconico pezzo dei Guns n' Roses, intitolato proprio, per l'appunto, Civil War.

Alex Garland ipotizza lo scenario di un'America zona di guerra, per via di una nuova battaglia secessionista, come quella che già insanguinò i territori statunitensi tra il 1861 e il 1865, proprio in contemporanea ai primi anni dell'unità d'italia.

In questi tempi, in cui anche l'Occidente ha riscoperto il significato della parola guerra, dopo aver finto per molto tempo di essersene dimenticato, e in cui il clima politico negli Stati Uniti si è pericolosamente radicalizzato e polarizzato, a seguito dei noti fatti di Capitol Hill, in particolare. Per questi motivi, nient'affatto banali, Civil War è un'opera destinata a essere ricordata come di culto, nel cinema di questo decennio. Nei nostri finora travagliati anni '20.

Anni in cui la guerra viene evocata con disarmante leggerezza, talvolta come uno spettro, talvolta come realtà. E, forse proprio per questo, l'aspetto più suggestivo e potente del film, che finisce per prevalere su tutto, è l'idea della guerra come crepuscolo dell'umanità e della civiltà.

Un crepuscolo, ciò nonostante, da raccontare attraverso le immagini, senza giudizio, ma piuttosto portando avanti un discorso sul senso stesso di esse. Le immagini della morte, della violenza: la fotografia dell'umanità al suo peggio. O forse nella sua forma più abituale, quella che più ha avuto nel corso dei millenni.

L'immagine, restituita nella sua verità dall'obiettivo fotografico, non è un'immagine etica, così come non è spinto da etica o moralità chi la produce, premendo il click della macchina fotografica. Più e più volte.

L'immagine è per natura neutra, imparziale, oggettiva. Le domande sono poste implicitamente, ed è chi osserva a doversi porre il problema. Quante volte siamo stati messi di fronte a tale cruda brutalità.

L'ambiguità dei fotoreporter, il loro cinismo, lo sprezzo del pericolo, per immortalare l'orrore e così trasmettere il proprio stesso senso di impotenza. Un distacco che può creare disagio, ma che si rivela anche necessario allo scopo.

Le ultime ore dell'America.

La visione di Garland è potente e lascia il segno. Il regista di Ex Machina, intelligentemente, non pone l'accento su nessuna causa, perché non è di questo che si tratta. Non empatizza con questo o quello schieramento e non scade nel manicheismo e nella retorica. Semplicemente, mette in scena la ciclica disumanizzazione dei fratricidi, attraverso un road movie bellico al tempo degli ultimi giorni dell'America.

Quelli delle fosse comuni, dei cecchini e dei presìdi, delle foreste in fiamme. E dei minuscoli spazi rimasti di umanità, comunanza e rifugio. Al crepuscolo.

Una nota di merito, infine, per l'azzeccatissima soundtrack, che include, tra le altre, Rocket USA dei Suicide. E per l'ineffabile A24, che non sbaglia un colpo.

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