Colui che Rolling Stone definì "il grande padre del tutto" si chiamava Alexis Korner, il più grande bluesman europeo, l'inventore del british blues (giovane, bianco e tassativamente amplificato). Come solitamente si usa quando una persona di grande spessore imbocca la strada dei cieli, forse si esagera, forse si pone eccessivamente l'accento sulle emozione del momento, forse ci si dimentica anche che ad Alexis Korner gli ci vollero (ingiustamente) dodici anni per entrare con un brano in una classica ufficiale, e nemmeno come compositore ma come arrangiatore ed esecutore, dodici anni da quella fatidica data. Era il 1961 e l'avventura della Alexis Korner's Blues Incorporated iniziava proprio in quel periodo; una band "Made in England", tra le prime a suonare blues elettrico nella Londra musicalmente ancora confusa. Ma in quel lasso di tempo di cose ne fece, di musicisti che sarebbero divenuti idoli del beat, del pop e del jazz inglese ne ospitò a decine in quella aperta formazione dedita alla sublime mescolanza di rhythm & blues, jazz e blues afro-americano. Giusto per citare i più noti svezzati, il bassista Jack Bruce, il batterista Charlie Watts, il sassofonista Dick Heckstall Smith e il cantante Mick Jagger, la lista potrebbe continuare ma i nomi esposti già bastano. C'è poco spazio inizialmente per questa importazione musicale, per le geniali doti di Korner alla chitarra elettrica e per la sua voce roca che si riconoscerebbe tra migliaia; nemmeno un locale che non sia una bettola ospita Korner e compagni, finiscono così per suonare in cantine fumose, drogherie abbandonate, oscuri locali della Liverpool degradata e con una mezza apparizione alla settimana (primavera del 1962) tra gli appassionati di jazz al Marquee di Londra. Parte di queste esibizioni passate alla storia e registrate appunto dal vivo finirono nel long playing R&B from the Marquee, un documento storico prima ancora che un capolavoro. Vi si trovano tutti i più caldi arrangiamenti della prima ora e le sue vergini composizioni con una formazione che grida leggenda: l'armonicista Cyril Davies in primis, già con Korner dagli anni '40, e poi il pianista Keith Scott, il sax tenore Heckstall Smith, il batterista Graham Burbidge, il bassista Spike Heatley e il cantante Jim Baldry. Musica fin troppo raffinata dedicata al pubblico associato alla Federazione Nazionale del Jazz ed ecco che la vera essenza della "Blues Incorporated" la si ritrova in un secondo album registrato dal vivo, questa volta alla Caverna di Liverpool il 23 Febbraio del 1964. Il suono questa volta è letteralmente grezzo ma più reale, maggiormente in sintonia con lo spirito della primissima formazione voluta da Korner e da Davies. Soprattutto si ascolta la sua voce, la gutturale ugola del vero bluesman, ed è per questo che ho preferito recensire il Live at the Cavern che raramente compare menzionato nelle monografie dell'artista in questione. Questa volta la formazione differisce, l'armonica di Davies è sparita causa la prematura morte dell'amico, Korner più presente che mai con la sua versatile chitarra finalmente "fuzzata", il contrabbasso di Vernon Brown detta ritmica pesante assieme alla batteria di Michael Scott, in primissimo piano l'organo Hammond di Malcolm Saul ed il sax alto di Dave Castle. Ed ecco che in poco meno di quaranta minuti di vera magia ci si accosta finalmente alle genuine tematiche della tradizione dei neri d'America sapientemente riadattata al contesto bianco, ancora per pochi e quindi intimo processo creativo prima ancora che trasduttivo, sincero, e con una bravura difficilmente riscontrabile altrove. I brani migliori del secondo momento Korner, quello già orientato totalmente alla creazione di un nuovo genere, sono abbondantemente presenti: "Overdrive", "Whoa Babe", "Herbie's Tune" con la pirotecnica voce del grande leader, mentre nella pur sempre personalissima "Every Day I Have the Blues" interviene vocalmente il cantante di colore Herbie Goins dei Soultimers. In aggiunta al repertorio personale le classiche versioni "Hoochie Coochie Man" dal repertorio dell'immortale Muddy Waters, "Little Bitty Gal Blues" dai duetti tra la voce altisonante di Joe Turner ed il lento piano-boogie di Pete Johnson, la classica "Kansas City" ripresa da tutta la generazione beat-rock e per concludere l'ormai definitiva versione rock'n'roll di "Well All Right, O.K. You Win". Korner e compagni si pongono come ideali trasduttori di un piacere che da personale diventa collettivo, che trasforma un'autentica passione per il blues nero in una innovazione che rimane ad oggi nei libri di storia, sicuramente qualche gradino sotto agli anni di fasto e gloria del blues americano, quello vero, quello classico, quello jezzato, da cui i musicisti bianchi inglesi ed americani hanno attinto senza sottrarre nulla indebitamente, anzi rigenerando il genere onde lanciarlo per sempre nel futuro.   

Elenco tracce e video

01   Overdrive (03:50)

02   Whoa Babe (04:29)

03   Everyday I Have the Blues (04:17)

04   Hoochie Coochie Man (05:44)

05   Herbie's Tune (07:32)

06   Little Bitty Gal Blues (05:40)

07   Well All Right, O.K., You Win (03:18)

08   Kansas City (04:28)

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