Quando la distopia è potente, in cielo galleggia il maiale dei Pink Floyd. Gli uomini non fanno figli, non sperano più, il vociare dei bimbi non smuove le giornate immobili.

Ho recuperato questo film del 2006 e ci ho visto tanto del Cuarón successivo, ma forse con un pizzico di coscienza in meno dei suoi mezzi. Uno stile eterogeneo, che accosta sequenze straordinarie a passaggi scialbi, mere connessioni narrative.

Inizia un po' scorbutico come Clive Owen, che non tenta proprio di risultare simpatico. Un'apatia passivo aggressiva in un mondo che va a rotoli, ma di cui nessuno ci fa un affrescone drammatico. La distopia è ovunque ma soprattutto nell'uomo, nella sua voglia e necessità di andare avanti, sempre più flebili. In questo, credo che sia uno dei film del genere meno spiegati in assoluto. E ne guadagna, perché gli orrori di domani sono le angosce di oggi, portate alle estreme conseguenze. E guardando i profughi nelle gabbie non vediamo altro che la cronaca dei giornali.

La fertilità dell'uomo scemata non è tanto distante dalla natalità a picco di questi anni, deliberata. Una distopia soprattutto morale, un disincanto che corrompe tutto. Si finisce in guerriglia, l'arte non vale più, il mondo affonda.

A metà il film diventa una poesia di viaggio, un infinito piano sequenza che accompagna la discesa all'inferno dell'uomo. E la risalita, su una barchetta nel blu. Qui la coscienza della forza espressiva di Cuarón si fa nitida. Non è tanto la trama, la storia, è la visione.

Come succederà poi in Roma, con un nitore anche superiore, il cineasta va a immortalare le forze immanenti che agitano l'uomo. La rabbia sociale, la guerra perpetua, e la fragilissima forza della vita che trova un modo. Trova il conforto di una zingara che l'accompagna, raccoglie il silenzio dei cannoni al suo passaggio (ma solo per quei pochi istanti), si nutre di uno sforzo immane di tanti per fare che sopravviva.

In un ribaltamento prospettico che dice tutta la perversione umana, la gestazione e la nascita di un pargolo diventano epopea suprema, odissea infinita, sacrificio di tanti. Mentre il mondo si arrabatta con cura nel processo di autodistruzione, la palingenesi è un pargolo scodellato su un materasso lercio di una città martoriata. Peggio, il mondo pensa solo a come sfruttare quella rinascita. Come farne uso politico.

Ci sono tanti bei movimenti di macchina, soprattutto nella lunga sequenza che accompagna i nostri nel difficile approdo finale. Ma sono tecnicismi funzionali, l'anima del film sta altrove, nel sentimento sotteso. Non nel gesto di bravura registica fine a se stesso.

La perizia di Cuarón ha qui un momento epifanico, ma nei successivi lavori si mostrerà ancor più alta e sempre funzionale a una visione dell'umanità. C'è un nesso fortissimo tra questo e Roma, quasi una sequenza parallela che non vi anticipo. E indica una finezza compositiva che negli anni si è accresciuta non poco. Guardando I figli degli uomini ho compreso di più la perfezione di Roma.

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